La salute della pelle a cura di
Dermatologia Myskin

La salute della pelle a cura di
Dermatologia Myskin

Home Blog Pagina 46

Caduta dei capelli: si può evitare? Cause, diagnosi e rimedi

La caduta dei capelli non è solo una problematica maschile ma anche femminile e si può manifestare ad ogni età.

Ciocche di capelli sparse sul cuscino, sulle spalle, nel lavandino, oppure aggrovigliate tra i denti delle spazzole o incastrate tra le dita della propria mano sono solo il segnale di un diradamento, una condizione che può essere indotta e scatenata da molteplici fattori che è necessario indagare per un intervento mirato.

Miti da sfatare

  • Periodo delle castagne: non c’è nessuna correlazione con la caduta dei capelli che fisiologicamente, per motivi non ancora chiariti, tendono a cadere maggiormente in alcuni periodi dell’anno quali la primavera e l’autunno. Ovviamente, se è presente una patologia specifica a carico del follicolo pilifero la caduta può essere costante durante tutto l’anno.
  • Tagliare i capelli corti non serve assolutamente a rinforzarli ma ad eliminare solamente le doppie punte.
  • Lavando quotidianamente i capelli si potrebbe rovinare il fusto, la lucentezza dei capelli, ma non causare la loro caduta.

Prima di indagare le possibili cause è necessario puntualizzare che il ciclo vitale del capello o di un pelo è caratterizzato da tre distinte fasi: anagen, catagen, telogen.

Ogni pelo e/o capello svolge il suo ciclo vitale all’interno del follicolo pilifero.

Il corpo umano dispone di circa 5 milioni di follicoli piliferi sparsi su tutta la superficie corporea. Di questi, 100.000-150.000 sono localizzati sul cuoio capelluto.

Inoltre, tutti i follicoli piliferi sono caratterizzati dall’assenza della sincronizzazione interfollicolare, ovvero alcuni sono in fase di crescita, altri in fase di riposo e altri ancora in fase di caduta. Pertanto, ogni follicolo pilifero produce il suo capello indipendentemente da quelli vicini.

In questo modo il ricambio avviene a “mosaico” e non si alternano, come per gli animali, periodi in cui si hanno i capelli ad altri in cui non ci sono. Se così non fosse trascorreremmo alcuni momenti della nostra esistenza completamente glabri. In questo modo, invece, la natura ha organizzato i follicoli affinché sul nostro corpo fossero sempre presenti i peli e sul cuoio capelluto i capelli.

Ma ad un certo punto questo meccanismo apparentemente semplice e perfettamente interconnesso si può inceppare e i capelli iniziano a cadere.

Manifestazioni cliniche dell’alopecia e cause responsabili della caduta dei capelli

L’alopecia localizzata o diffusa su tutto il cuoio capelluto può essere indotta da molteplici fattori, responsabili di patologie ben definite:

  • Telogen Effluvium – eccessiva caduta dei capelli in fase telogen. Le cause più frequenti possono essere le infezioni, i farmaci, il post-partum, sindromi carenziali (ad esempio ferro, biotina, zinco…), stress acuto o patologie della ghiandola tiroidea.
  • Alopecia traumatica – lo stiramento eccessivo dei capelli, ad esempio per poterli legare a coda, può favorire l’insorgenza di aree alopecie. Oppure, nei neonati, lo sfregamento sul cuscino della regione occipitale determina l’insorgenza di aree prive di capelli che ricrescono spontaneamente una volta eliminato lo stimolo traumatico.
  • Alopecia androgenetica – si manifesta solo se presente una predisposizione genetica. Interessa il 50% degli uomini e il 30% delle donne. In questi soggetti il diidrotestosterone riduce la fase anagen dei follicoli piliferi. La scala di Hamilton e Norwood per l’uomo e quella di Ludwing per la donna descrivono l’entità del quadro clinico.
  • Tricotillomania – si manifesta in soggetti con comportamenti ossessivi-compulsivi che si strappano i capelli. Si tratta di un’autoaggressione nevrotica. Quando presente nei bambini si tratta, generalmente, di un tic benigno non associato a nessuna patologia psichiatrica. I capelli nell’area diradata si presentano spezzati a vari livelli.
  • Follicolite decalvante di Quinquaud – un processo infiammatorio cronico a carico dei follicoli, forse dovuto all’infezione dello Stafilococco Aureo, esita nella formazione di un’area alopecica irreversibile.
  • Lichen planus pilare – processo infiammatorio autoimmune che esita in un’ area cicatriziale.
  • Alopecia areata – malattia autoimmune che si manifesta nei soggetti con predisposizione genetica. Nel 60% dei casi si manifesta prima dei 20 anni. Può essere localizzata, interessando il cuoio capelluto oppure altre aree del corpo ricoperte da peli. Solo nel 5% dei casi può essere universale, ovvero la malattia determina la caduta di tutti i capelli e i peli.
  • Caduta dei capelli dopo chemioterapia – pochi giorni o settimane dopo l’inizio della chemioterapia i capelli tendono a diventare secchi e fragili si spezzano e iniziano a cadere in ciocche. Successivamente, dopo il trattamento, i capelli ricrescono completamente e a volte in numero maggiore.

Anche i soggetti con dermatite allergica da contatto al cuoio capelluto possono perdere i capelli, i quali possono cadere anche dopo trattamenti condizionanti professionali, tipo una permanente molto aggressiva, responsabile di un danno alla struttura del fusto.

Diagnosi tricologica

L’anamnesi e la visita clinica sono fondamentali per un corretto inquadramento diagnostico del diradamento dei capelli.

Diversi sono gli esami che lo specialista può eseguire per valutare la tipologia e l’entità della caduta dei capelli: pull test, tricogramma e più recentemente anche la dermatoscopia sono fondamentali per uno studio approfondito dei capelli, dei follicoli piliferi e del cuoio capelluto. Solo nel caso in cui si sospetti una dermatite allergica da contatto è indicato eseguire i PATCH test. Mentre, se il sospetto clinico è un processo infiammatorio autoimmune si esegue la biopsia cutanea in anestesia locale per prelevare una pochi millimetri di cuoio capelluto a tutto spessore, contenente quindi anche i follicoli, per eseguire l’esame istologico.

Terapia mediche e chirurgiche

La complessità dei quadri clinici non giustifica assolutamente l’improvvisazione e l’automedicazione con prodotti da banco.

Il trattamento deve essere specifico e individuale per ogni quadro clinico diagnosticato e può prevedere l’uso di vari rimedi cosmetici o farmacologici. Prima di tutto, se possibile, devono essere rimosse eventuali cause scatenanti. Inoltre, è necessario indagare la presenza di eventuali sindromi carenziali che devono poi essere ripristinate con la somministrazione di integratori adeguati. Non tutti gli integratori sono uguali e lo stesso prodotto non va bene per tutti.

Inoltre, se necessario, correggere eventuali squilibri alimentari prevedendo il consumo di:

  • Proteine – uova, frutta secca, latticini
  • Ferro e rame – fegato, legumi, frutti di mare
  • Calcio – vegetali verdi, latticini e molluschi
  • Vitamina A – buono, vegetali, uova
  • Vitamina B – fegato, lievito di birra, cereali
  • Vitamina C – verdura e frutta fresca

Nel caso dell’alopecia androgenetica esistono, invece, rimedi di mantenimento per preservare lo stato dei capelli o di rinfoltimento. Quelle di mantenimento prevedono l’uso di cosmetici quali lozioni, shampoo o fiale per normalizzare ad esempio l’eccessiva produzione di sebo. Mentre, per quanto riguarda i farmaci è possibile ricorrere all’applicazione locale di MInoxidil lozione alla concentrazione 2-5% oppure della Finasteride che contrasta la produzione del diidrotestosterone, responsabile del problema.

La finasteride può essere prescritta anche nella donna.

Infine l’approccio chirurgico è finalizzato a rinfoltire una determinata area innestando dei follicoli prelevati da un’area donatrice dello stesso soggetto oppure applicando protesi di capelli.

L’impianto dei capelli in un’area diradata deve essere associato per sempre all’assunzione della finasteride per evitare che con il tempo anche quelli trapianti possano cadere. Di solito, in base all’estensione della calvizie vengono eseguiti più interventi chirurgici per ripristinare progressivamente nel tempo la capigliatura desiderata.

L’alopecia aerata e il lichen plano pilare prevedono cicli di cortisone topico o sistemico o di altri farmaci immunosoppressori o immunomodulanti che è possibile prescrivere anche in associazione tra loro. Fattori quali l’età della persona, l’entità del problema, la sua tipologia e le condizioni generali di salute sono rilevanti per identificare l’approccio medico migliore per ogni persona.

Verruca volgare: asportazione chirurgica, laser o azoto liquido? Indicazioni, suggerimenti

Asportazione chirurgica, laser o azoto liquido? Quale il trattamento migliore per eliminare le verruche volgari?

Chi ha avuto l’esperienza di una verruca sa benissimo che la possibilità di una recidiva è dietro l’angolo. Colpa del trattamento medico incongruo precedentemente eseguito?

Sulla base di che cosa un dermatologo valuta il trattamento migliore da eseguire?

Cause responsabili della comparsa della verruca sulla pelle

La verruca volgare è un infezione virale, dovuta ad un piccolo virus delle dimensioni pari a circa un millesimo di millimetro, appartenente alla famiglia degli HPV.

Una persona contrae l’infezione solo se si verificano diverse condizioni:

  • alterazione della funzione barriera della pelle in seguito a piccole ferite o abrasioni, anche se superficiali
  • frequentazione di ambienti umidi (ad esempio piscina) che più facilmente favoriscono la macerazione della pelle
  • immunodepressione, ovvero un abbassamento delle difese cutanee, che può manifestarsi dopo un terapia antibiotica oppure in seguito ad altre patologie

La presenza di una o di poche verruche viene considerata un evento occasionale. Al contrario, quando si manifestano contemporaneamente più verruche, ad esempio diffuse su tutto il palmo o la pianta del piede oppure localizzate in diverse aree del corpo, esclusa l’autoinoculazione, deve essere indagata la presenza di malattie che possono aver compromesso la funzionalità del sistema immunitario quali l’epatite o l’infezione da HIV.

Metodo di trattamento migliore per eliminare le verruche

Qualunque sia il metodo utilizzato dal dermatologo l’obbiettivo è la cauterizzazione o la rimozione della cute infettata dal virus. Pertanto, teoricamente l’asportazione chirurgica, il laser o l’intervento con azoto liquido sono ugualmente efficaci; nella pratica quotidiana però la scelta di utilizzare una tecnica rispetto ad un’altra è determinata da:

  • Sede dell’infezione
  • Numero delle manifestazioni
  • Età del soggetto
  • Attività lavorativa della persona
  • Stato di salute del paziente

Ad esempio, un infezione di piccole dimensioni, localizzata all’angolo delle labbra, sarà rimossa con un intervento chirurgico in anestesia locale, mentre la stessa tipologia di lesione in sede palmo-plantare con l’azoto liquido. Infine, se localizzata in altri distretti corporei con il laser.

Rilevante anche l’esperienza e la familiarità del professionista con le singole metodiche nonché la disponibilità in studio di una determinata tecnica.

L’asportazione chirurgica o la cauterizzazione della verruca esita sempre con la formazione di una ferita, suturata con i punti solo in caso di intervento chirurgico, di forma circolare o ovale e dimensioni pari o leggermente superiori a quella della verruca rimossa.

Solo nel caso in cui sia stato impiegato l’azoto liquido, a distanza di qualche giorno dal trattamento compare una bolla al posto della verruca che tende a rompersi spontaneamente in seguito all’aumento della pressione interna del liquido.

Dopo la rottura della bolla, evitare di rimuovere la pelle flaccida che ricopre la ferita perché rappresenta una naturale protezione importante per prevenire eventuali infezioni.

La presenza della ferita è un chiaro ed evidente segno di alterazione morfologica e funzionale della cute che in quel punto ha una probabilità elevata di ripresentare la stessa infezione virale se non vengono rispettate alcune condizioni:

  • Medicazioni sterili
  • Evitare il contatto con l’acqua
  • Evitare di detergere con saponi

Solo quando il dermatologo accerterà la completa guarigione della ferita, ovvero il ripristino della normale integrità cutanea sarà possibile riprendere il normale stile di vita.

Influenza suina: verità, menzogne, dati di fatto, vaccini e farmaci antivirali

L’influenza suina, descritta fin dall’inizio come altamente contagiosa e mortale, ha attivato, a livello mondiale, una serie di programmi informativi e non solo per salvaguardare la salute dei cittadini perché è stata presentata come una pandemia.

La Spagnola è stata la più grave pandemia della storia. Un terzo della popolazione mondiale è stata contagiata e almeno 40 milioni di persone sono decedute.

Nel 1957 e nel 1968 si sono verificate altre due pandemie a livello mondiale anche se meno letali.

2009: l’influenza A viene considerata una pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e gli Stati Uniti attivano il più grande programma di vaccinazione di massa dopo quello degli anni cinquanta contro la poliomielite e per garantire una protezione più ampia spendono più di tre miliardi di dollari in farmaci antivirali: l’oseltamivir (Tamiflu) e lo zanamivir (Relenza).

Anche gli altri Paesi corrono ai ripari attivando programmi gli stessi programmi di vaccinazione su scala nazionale.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di snocciolare alcuni fatti che si sono verificati in questi ultimi mesi.

Definizione di pandemia

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si verifica quando un nuovo virus influenzale appare in una popolazione umana che non ha immunità, causando epidemie in tutto il mondo con un numero enormi di morti e malattie.

Questa è stata la definizione ufficiale, ovvero di una patologia virale nuova, altamente contagiosa ma soprattutto causa di un numero elevato di morti.

Nel maggio del 2009, improvvisamente l’OMS rivede la definizione e definisce come pandemia qualunque epidemia dovuta ad un nuovo virus, altamente contagiosa ma che non necessariamente deve causare un numero elevato di morti.

Apparentemente un piccola modifica irrilevante ma, invece, è una definizione che aprirà continui e futuri scenari, ogni volta diversi, di allarme sociale.

A tutt’oggi l’OMS non ha spiegato i motivi della necessità di modificare la definizione di pandemia.

Definizione di influenza

Comunemente definiamo influenza quella malattia che si caratterizza per la comparsa di sintomi quali: febbre, tosse, malessere generale, indolenzimento muscolare e/o osseo dovuta all’infezione del virus influenzale.

Nella stragrande maggioranza dei casi è sufficiente presentare questi sintomi perché il medico formuli la diagnosi di influenza oppure noi stessi pensiamo di avere tale malattia. Di solito, non viene eseguita nessuna indagine per confermare l’infezione da virus influenzale.

Eppure, i ricercatori hanno chiaramente dimostrato che gli stessi disturbi possono essere scatenati da più di 200 altri virus non influenzali quali: il virus sinciziale, il bocavirus, il coronavirus e il rinovirus.

Tutti questi virus possono essere responsabili di malattie di tipo influenzale e, secondo alcuni dati, l’influenza sarebbe la causa dei sintomi descritti solo nel 50% dei casi e a volte solo nel 7-8%.

Chi è Edgar Hernandez?

E’ un bambino di cinque anni di La Gloria (Messico), ritenuto il primo al mondo ad aver contratto l’influenza suina in aprile, poco prima che l’OMS modificasse la definizione di pandemia.

Eppure, nonostante l’alta contagiosità del virus nessuno dei suoi familiari ha contratto la stessa malattia nello stesso periodo. Questo non significa che il virus non sia contagioso ma sembra quasi che si «aspettasse» solo l’occasione per mettere in campo tutte le informazioni mediatiche sulla pandemia dell’influenza suina e creare, di conseguenza, un allarme sociale.

Vaccini per l’influenza suina

In America, una delle quattro aziende incaricata a produrre il vaccino è la MedImmune che ogni settimana produce 1.000.000 di dosi. La vaccinazione viene ritenuta importante perché riduce la mortalità del 50% ma non tutti i ricercatori sono d’accordo sulla loro reale efficacia.

E’ stato dimostrato, infatti, che la mortalità per influenza in America non aumentò quando:

  • nel 1968 e 1997 si scoprì che i vaccini prodotti non proteggevano nei confronti del virus che effettivamente circolò
  • nel 2004 la produzione dei vaccini fu insufficiente e fece scendere del 40% il tasso dei soggetti immunizzati

Inoltre, Sumit Majumdar, ricercatore dell’Alberta in Canada, ha dimostrato che l’aumento delle vaccinazioni somministrate agli anziani negli ultimi anni vent’anni non determinato un tasso più basso di mortalità. Inoltre, se nel 1989 solo il 15% degli americani e canadesi con più di 65 anni veniva vaccinato contro l’influenza, oggi pur essendo immunizzato più del 65% il tasso di mortalità è aumentato.

Tutti vaccini, introducendo una dose di virus indeboliti, stimolano la produzione di anticorpi ma tale produzione è più efficace solo nei soggetti in buona salute mentre è scarsa o nulla negli anziani, soprattutto se affetti da altre patologie. Questo spiegherebbe perché pur vaccinando i soggetti con più di 65 anni la mortalità non diminuisce.

I vaccini per l’influenza suina, però si sono dimostrati pericolosi anche nei soggetti sani e basti pensare che quello della GlaxoSmithKline (GSK) è stato repentinamente ritirato perché responsabile di reazioni allergiche in una percentuale superiore a quella attesa.

Nessun’altra spiegazione ufficiale è stata fornita.

Mentre il vaccino distribuito in Italia dalla Novartis – che garantisce solo che lo standard di produzione e la qualità del prodotto ma non la sua efficacia, come chiaramente riportato all’articolo 4.1 di pagina 8 del contratto di fornitura firmato dal Ministero della salute – contiene tra i vari eccipiente la sostanza MF59.

L’adiuvante MF59 è un derivato oleoso di un prodotto ideato per la guerra del Golfo e secondo alcuni esperti della sanità è considerato un principio appartenente alla categoria delle armi biologiche o farmacologiche.

Inoltre, la legislazione impone che l’utilizzo del MF59 debba essere molto limitato negli esperimenti sugli animali e non prevede assolutamente il suo utilizzo sull’uomo. Molti immunologi sostengono che una dose anche microscopica di poche molecole di adiuvante, iniettata nel corpo umano, possa causare gravi e permanenti disturbi al sistema immunitario. Infine, la FDA non ha ancora approvato l’utilizzo di MF59 in alcun vaccino.

Farmaci antivirali

Il governo americano, dopo la diffusione della pandemia nel sud-asiatico dovuta all’aviaria, stanziò una cifra di oltre 3 miliardi di dollari per la produzione e lo stoccaggio degli antivirali.

La decisione fu presa quando il sottosegretario alla difesa era Donald Rumsfeld che, prima di entrare a far parte del governo Bush, era stato per 4 anni il presidente della Gilead Sciences, l’azienda che detiene il brevetto del Tamiflu e che nel frattempo aveva conservato azioni della compagnia per milioni di dollari.

Reso noto il piano del governo americano, il prezzo di tali azioni aumentò del 50%.

Mentre, attualmente, è solo un po’ più basso, pari a circa al 30%, l’aumento medio del valore delle azioni in borsa delle varie aziende che producono mascherine e altre dispositivi per evitare il contagio dell’influenza.

Ma un investimento così alto per il Tamiflu è veramente motivato?

Il Tamiflu riduce solamente la durata dei sintomi dell’influenza di 24 ore. In cambio di questo vantaggio, una persona su cinque soffre di nausea e vomito e un bambino su cinque manifesta effetti collaterali di tipo psichiatrico, tra cui ansia e pensieri suicidi.

Rokuro Hama, presidente dell’Istituto di vigilanza sui farmaci in Giappone, sostiene che il Tamiflu potrebbe essere stato responsabile della morte di 50 persone per arresto cardio-polmonare.

Nel 2006, il gruppo farmaceutico svizzero La Roche – l’unico autorizzato a produrre e commercializzare il Tamiflu – annunciò che:

  • il loro farmaco riduceva in modo significativo il rischio di morte da influenza;
  • i bambini con l’influenza e trattati con il farmaco hanno il 53% in meno di probabilità di contrarre la polmonite.

Tali affermazioni non furono mai dimostrate negli studi successivi e di conseguenza, in agosto, La Roche ha pubblicato sul suo sito, su disposizione del FDA, che: «non è dimostrato che il Tamiflu abbia un effetto positivo sulle possibili conseguenze (ospedalizzazione, mortalità o impatto economico) di un’influenza stagionale, aviaria o pandemica».

Conclusioni

L’Australia – uno dei primi Paesi ad aver superato l’ondata dell’influenza suina – aveva già segnalato che il rischio non si era dimostrato superiore a quello dell’influenza stagionale. Perché è continuato lo sforzo mediatico di non abbassare il livello di guardia?

Adrian Gibson, un ricercatore australiano sostiene che il virus dell’influenza suina è stato creato in laboratorio e poi per qualche motivo si è diffuso nell’ambiente.

A tutt’oggi, solo il ministro della salute polacco in un discorso al parlamento ha analizzato criticamente il problema influenza suina e il tema della vaccinazione.

Se qualcuno si è divertito «a giocare al piccolo chimico per vedere l’effetto che fa», cosa succederà quando una vera pandemia, nel senso classico e originario della definizione dell’OMS, si dovesse presentare?

L’unica vera vittima dell’influenza suina è stata l’informazione trasparente, coerente e disinteressata.

Su un nevo può comparire una dermatite? Il nevo di Meyerson

Come si manifesta un nevo (neo)?

Comunemente, si pensa che il nevo sia solo quella macchia di colore scuro nero o marrone, spesso rilevata. In realtà, il termine è assolutamente aspecifico e generico ed è usato per identificare diverse manifestazioni pigmentate benigne, morfologicamente differenti tra loro.

I nevi possono avere diverse facce che è utile conoscere per distinguerle da quelle del melanoma.

L’obiettivo non è l’autodiagnosi ma sottolineare l’importanza:

  • della sensibilizzazione della prevenzione
  • dell’autocontrollo dei nevi
  • del follow-up e screening digitale dei nevi
  • della diagnosi precoce del melanoma

Nel 1971 Meyerson notò che sulla superficie dei nevi o in periferia potevano comparire fenomeni infiammatori morfologicamente simili alla dermatite.

Il fenomeno poteva manifestarsi su un solo nevo oppure, nello stesso soggetto, su più nevi contemporaneamente.

Improvvisamente, un nevo cambiava il suo aspetto iniziale presentando un arrossamento umido o secco, caratterizzato anche da desquamazione, oppure da piccole vescicole sierose. Battezzò questo fenomeno: nevo di Meyerson.

Sebbene, le cause responsabili del problema non siano state ancora chiarite è stato ipotizzato che malattie tipo la Pitiriasi Rosea di Gibert possono, nei soggetti predisposti, favorire e scatenare un processo infiammatorio sulla superficie o intorno ad un nevo.

Il nevo di Meyerson è una manifestazione assolutamente benigna che tende a risolvere spontaneamente oppure dopo applicazione topica di una cortisonico.

Tuttavia, è sempre indicato il consulto dello specialista quando un soggetto nota che un nevo si presenta diverso dagli altri perché è comparso di recente e cresce rapidamente oppure perché sta cambiando di colore e dimensioni.Nevo di Meyerson

Curare l’acne con Isotretinoina: tutte le indicazioni, controindicazioni ed effetti collaterali

L’isotretinoina è un derivato della vitamina A, un farmaco appartenente alla famiglia dei retinoidi, indicato per il trattamento dell’acne.

Esiste sia il topico in varie formulazioni quali crema, gel, lozione sia il sistemico in capsule commercializzato con i seguenti nomi: Roaccutan, Isoriac, Isotretinoina, Aisoskin.

Le formulazioni topiche sono indicate sia in monoterapia sia in associazione ad altre terapie per il trattamento delle varie forme cliniche dell’acne mentre le indicazioni per la somministrazione delle capsule sono specifiche solo per alcune manifestazioni della patologia.

Indicazioni, controindicazioni e avvertenze d’uso

L’isotretinoina sistemica può essere prescritta da medici specialisti solo in caso di acne:

  • grave caratterizzata dalla presenza di noduli e cisti al volto e/o al tronco
  • con rischio di formazione di cicatrici
  • resistente alle terapie con antibiotici per uso orale o locale (crema, gel, unguento, lozione)

Mentre è assolutamente controindicata per il trattamento dell’acne prepuberale e non è raccomandata nei soggetti di età inferiore ai 12 anni.

Inoltre, il farmaco non deve essere assunto in caso di:

  • insufficienza epatica (grave malattia funzionale del fegato)
  • ipervitaminosi A (livello molto alto di vitamina A nel sangue)
  • elevati livelli di colesterolo e trigliceridi
  • contemporanea assunzione di antibiotico appartenente alla famiglia delle tetracicline
  • allergia ad uno dei componenti della capsula che può contenere olio di semi di soia oppure derivati delle arachidi
  • gravidanza o in allattamento

L’isotretinoina è un farmaco che dopo essere stato assunto viene metabolizzato a livello epatico e se il fegato presenta una disfunzione può aumentare il rischio di effetti collaterali. Inoltre, durante l’assunzione del medicinale aumentano transitoriamente, solo per la durata del ciclo di terapia, i livelli dei lipidi (colesterolo e trigliceridi) e quelli della vitamina A.

Consigli pratici da seguire per la durata del trattamento

  • Durante il trattamento con isotretinoina evitare l’eccessiva esposizione al sole e non utilizzare le lampade UV di lettini o docce solari perché potrebbero favorire l’insorgenza di reazioni fototossiche.
  • Evitare la depilazione con ceretta durante il ciclo di terapia e almeno 6 mesi dopo la sospensione del farmaco perché potrebbe favorire il distacco dell’epidermide e i trattamenti di dermoabrasione chirurgica o laser per levigare la pelle e attenuare le cicatrici in quanto potrebbero favorir l’insorgenza di macchie più chiare o più scure rispetto al colore normale della pelle sana.
  • Infine, poiché l’isotretinoina è teratogeno, l’assunzione in gravidanza può determinare l’insorgenza di gravi malformazioni nel feto.

Malformazioni fetali dovute all’azione teratogena dell’isotretinoina in gravidanza

L’assunzione del farmaco in gravidanza può determinare l’aborto oppure la comparsa di una serie di malformazioni fetali che possono riguardare gli organi interni (cuore, timo, sistema nervoso) oppure quelli esterni:

  • assenza delle orecchie
  • orecchie attaccate molto in basso
  • aumento eccessivo delle dimensioni della testa
  • piccole dimensioni del mento

L’isotretinoina, inoltre, può passare nel latte materno e creare danni al neonato.

Tuttavia, se una donna in età fertile presenta un quadro clinico di acne che necessità del trattamento con isotretinoina è possibile prescriverla solo attuando contestualmente il programma di prevenzione della gravidanza, un protocollo gestionale per garantire la somministrazione responsabile del farmaco.

Programma di prevenzione della gravidanza

Il protocollo prevede l’effettuazione di test di gravidanza e l’attuazione di misure inerenti la contraccezione.

Il test della gravidanza deve essere eseguito un mese prima di iniziare la terapia e deve essere effettuato nei primi 3 giorni dall’inizio del ciclo mestruale. Il test deve essere poi ripetuto mensilmente durante la terapia e cinque settimane dopo averla interrotta.

Il risultato deve essere sempre negativo e la persona non deve rimanere incinta né durante il ciclo di trattamento né il mese successivo dopo la sospensione.

Anche le misure anticoncezionali devono essere iniziate un mese prima e sospese almeno un mese dopo il termine del trattamento. Inoltre, tali misure devono essere adottate anche dalle donne fertili sessualmente non attive o senza mestruazioni.

Per una copertura contraccettiva efficace, il programma di prevenzione della gravidanza indica di adottare preferibilmente due metodi complementari di contraccezione, uno di prima scelta e l’altro di tipo barriera per un’affidabilità del 100%.

Metodi contraccettivi di prima scelta

  • IUS ormonale (levonorgestrel) – posizionato a livello uterino garantisce una contraccezione per 5 anni. Può determinare irregolarità mestruali nei primi mesi e, nel 20% dei casi, assenza di sanguinamento durante la fase mestruale
  • Pillola contraccettiva combinata orale – metodo maggiormente utilizzato
  • Cerotto contraccettivo – applicato settimanalmente, rilascia attraverso la cute gli ormoni estro-progestinici come la pillola. Potrebbe, però, staccarsi oppure causare irritazioni locali
  • Anello vaginale – applicato a livello della vagina per tutta la durata del ciclo, richiede dimestichezza
  • IUD in rame – posizionato a livello intrauterino garantisce una contraccezione simile allo IUS ormonale ma non è idoneo per le donne più giovani

Metodi contraccettivi di seconda scelta

  • Preservativo
  • Diaframma – posizionato a livello vaginale dovrebbe essere usato insieme agli spermicidi. Potrebbe causare irritazione della mucosa genitale

Il programma di prevenzione della gravidanza esclude categoricamente la contraccezione post-coitale (pillola del giorno dopo) e i metodi definiti naturali perché meno affidabili.

Assunzione dell’ isotretinoina

Il farmaco deve essere assunto durante i pasti, ingoiando le capsule senza masticarle. Il dosaggio iniziale del farmaco, stabilito generalmente in base al peso corporeo della persona può essere modificato durante il ciclo di trattamento che di solito dura da 16 a 24 settimane.

In caso di dimenticanza dell’assunzione del farmaco è assolutamente controindicato l’assunzione di un dosaggio doppio il giorno seguente.

Effetti collaterali

In conclusione, l’assunzione dell’isotretinoina può avere una serie di effetti collaterali che potrebbero interessare diversi organi e/o distretti corporei. Questi effetti regrediscono nel corso del trattamento oppure dopo l’interruzione dello stesso o dopo la modifica del dosaggio terapeutico e non necessariamente compaiono in tutti i soggetti.

  • Effetti psichiatrici – tristezza, sbalzi d’umore, ansia, crisi di pianto, apatia, sonno eccessivo, pensieri di autolesionismo o di suicidio.
  • Effetti sul sistema nervoso – raramente ipertensione endocranica, caratterizzata da cefalee, nausea, vomito, disturbi visivi e talvolta convulsioni nei soggetti che oltre all’ isotretinoina assumono in concomitanza tetracicline.
  • Effetti sul fegato – rarissimamente epatite
  • Effetti sul metabolismo – riscontrato un aumento del bisogno di bere e di urinare, sintomi che se associati ad un aumento dei livelli di zucchero nel sangue potrebbe indicare l’insorgenza di un diabete
  • Effetti sulla pelle – la cute può diventare più fragile, specie sul viso, e arrossarsi più facilmente. Frequente l’insorgenza di pelle secca, soprattutto alle labbra. A volte possono deteriorarsi le unghie, si può osservare un aumento dei peli corporei oppure cambiamenti a carico della struttura dei capelli che possono diradarsi ma anche ispessirsi. Raramente si può verificare un eccesso di sudorazione e prurito.
  • Effetti sugli occhi – comune la secchezza oculare e conseguente scarsa tolleranza alle lenti a contatto.
  • Effetti sull’apparato scheletrico – dolori muscolari e/o articolari, specie alla schiena.
  • Effetti sui sistema linfatico – raramente è stato osservato un aumento delle dimensioni dei linfonodi.

Conclusioni

L’isotretinoina è un farmaco importante e decisivo per il trattamento di specifici quadri clinici di acne. Pertanto, deve essere prescritto dal medico solo quando strettamente indicato. Una donna in età fertile può assumere il farmaco ma solo se contestualmente viene attuato il programma di prevenzione della gravidanza. Mentre, non esiste il rischio teratogeno se il farmaco viene assunto dal sesso maschile.

Un’informazione puntuale e partecipata da parte dell’utente è fondamentale per atteggiamento critico per poter eseguire consapevolmente il ciclo di terapia con isotretinoina.

E’ efficace lavarsi le mani con acqua calda per prevenire l’influenza suina?

E’ opinione comune che lavarsi le mani con acqua calda e con il sapone sia sufficiente a prevenire le infezioni e di conseguenza a contrastare la loro diffusione.

Sarà vero?

Che differenza c’è tra lavarsi le mani con acqua calda oppure con quella fredda?

In questi giorni, la fobia di contrarre l’influenza suina, dovuta all’infezione del virus H1N1, ha determinato un consumo eccessivo di antisettici, quali l’amuchina gel, e/o di acqua calda per lavarsi.

Nel 2005 è stato pubblicato sul Journal of Occupational Environmental Medicine una ricerca scientifica che ha chiaramente dimostrato che non esiste nessuna prova d’efficacia sull’acqua calda nel ridurre i germi presenti sulle mani.

I volontari dello studio avevano lavato e sciacquato le mani con il sapone per 25 secondi, usando acqua tra i 4 e i 48 gradi.

La temperatura dell’acqua non aveva nessun effetto sulla riduzione dei germi.

Eppure la Food and Drug Administration sostiene che la temperatura calda o tiepida dell’acqua, oltre ad essere più gradevole per lavarsi, rimuoverebbe più efficacemente di quella fredda lo sporco dalla pelle dove più facilmente i germi tendono ad annidarsi.

In realtà, l’acqua calda può rendere alcuni saponi molto irritanti e di conseguenza favorire importanti dermatiti da contatto.

In conclusione, la scelta della temperatura dell’acqua deve essere scelta solo sulla base della gradevolezza individuale e non in base ad eventuale effetti antibatterici.

Come affrontare la Dermatite Atopica punto per punto: linee guida 2009

Una task force europea di dermatologi e pediatri ha pubblicato su JEADV le linee guida 2009 per la diagnosi e il trattamento della dermatite atopica, una malattia del lattante, del bambino ma anche dell’adulto, spesso facile da diagnosticare clinicamente ma complessa da gestire.

La chiave di volta quotidiana: idratazione

  • La dermatite atopica è una patologia associata ad un’anomalia della barriera cutanea, pertanto è stata sottolineata l’importanza fondamentale dell’idratazione con emollienti da applicare preferibilmente dopo il bagno o la doccia. Gli emollienti sono la chiave di volta quotidiana perché idratano la pelle, riducono il prurito, migliorano la funzione barriera della cute e riducono l’uso di corticosteroidi.
  • E’ consigliato idratare due volte al giorno la pelle con basi idrofiliche contenenti urea al 5% oppure se non tollerate è possibile ricorrere alle emulsioni o alle soluzioni micellariutili a ridurre il numero delle recidive della malattia. Attenzione, però, agli eccipienti quali gli estratti di arachidi o dell’avena presenti in alcuni idratanti perché potenzialmente allergizzanti nei soggetti con dermatite atopica.
  • Evitare l’uso di detergenti schiumogeni perché irritanti e preferire i syndet o le soluzioni acquose con pH fisiologico pari a 6 e se necessario contenenti antisettici. La detersione deve essere eseguita dolcemente e attentamente per rimuovere meccanicamente le croste sierose e le eventuali contaminazioni batteriche spesso associate alla dermatite atopica.

Identificare ed eliminare tutti i possibili fattori scatenanti la malattia quali gli allergeni alimentari o quelli inalanti. Tra gli allergeni alimentari, il latte di mucca, le uova di gallina, i farinacei, la soia, le noccioline, le arachidi sono i maggiori responsabili dell’induzione o esacerbazione dell’eczema sia nei lattanti sia durante l’infanzia.

Mentre per quanto riguarda i possibili allergeni inalatori considerare la polvere di casa e il pelo del gatto o del cane.

I test per la Dermatite Atopica

Se presente il sospetto di un’allergia verso gli allergeni citati è indicato eseguire i seguenti test: Atopy PATCH testPRICK alimenti e inalanti, PRICK-PRICK test, PRIST (dosaggio delle IgE totali), RAST (dosaggio IgE specifiche per i vari allergeni).

Il dosaggio quantitativo in vitro delle IgE (rast) è solo una stima di probabilità del rischio di una reazione clinica dopo l’ingestione di un data alimento, reazione che deve essere dimostrata e confermata con il prick test o con la prova di scatenamento sotto controllo medico specialistico.

Il test di scatenamento consiste nel somministrare l’alimento al quale il soggetto potrebbe essere allergico. Se la persona è positiva al test, in pochi minuti si osserva una reazione immediata caratterizzata da: orticaria, disturbi respiratori o gastro-intestinali. Tardivamente, dopo 2-48 ore, a volte anche dopo alcuni giorni, si può invece manifestare una reazione tardiva con la comparsa di lesioni eczematose.

Il 50% dei bambini con dermatite atopica positivi al test di scatenamento presenta entrambe le reazioni sia quella immediata sia quella tardiva, mentre il 15% solo quella tardiva. Invece, è sottostimata l’allergia da contatto, indagabile con i patch test, positivi nel 40-65% dei casi. I metalli (ad esempio il nichel), le fragranze profumate, la neomicina e la lanolina sono le sostanze che più frequentemente possono far peggiorare la dermatite atopica. Pertanto, in questi casi solo evitando il contatto con la sostanza incriminata la dermatite atopica può migliorare.

Infine, se la dermatite atopica è associata anche a sintomi respiratori, quali rinite o asma, perché la persona è allergica anche ad alcuni inalanti è indicato il vaccino.

Terapia

Come già accennato il trattamento d’elezione è quello topico (applicazione direttamente sulla parte malata), la cui efficacia dipende da: scelta del principio attivo, durata del ciclo di terapia, corretta applicazione. Pertanto, tutti i trattamenti, compresi quelli omeopatici, finalizzati solo ad un approccio sistemico sono fallimentari. Inoltre, nelle linee guida nessun rimedio omeopatico è stato validato.

I farmaci topici devono essere applicati solo sulla pelle idratata e la scelta del principio attivo dipende al tipo di lesioni e dalla sede della manifestazione. Solo se presente una sovrainfezione è indicata l’applicazione di antibiotici o antimicotici, altrimenti il farmaco di prima scelta per modulare e gestire l’infiammazione è il cortisone che è possibile diluire con una crema base per ridurre il rischio di effetti collaterali, quali l’atrofia cutanea, e garantire contestualmente l’idratazione.

Tutte le terapie a base di cortisone non dovrebbero mai essere interrotte bruscamente ma solo scalando le applicazioni in caso di terapia topica, o il dosaggio, nel caso dell’assunzione orale. Il cortisone deve essere scalato solo quando si osserva un miglioramento clinico della dermatite atopica e il prurito svanisce.

Tacrolimus e pimecrolimus sono due inibitori della calcineurina, principi attivi alternativi al cortisone, particolarmente indicati nei casi in cui la dermatite atopica sia localizzata alle palpebre, all’inguine, regione periorale e alle ascelle. L’uso cronico e continuativo non determina l’insorgenza dell’atrofia cutanea. Dopo la loro applicazione sulla cute lesa si avverte un senso di calore e/o pizzicore, una sensazione che dura alcuni minuti (al massimo un’ora) che, continuando la terapia, svanisce spontaneamente nei giorni successivi.

E’ stato dimostrato che l’uso degli inibitori della calcineurina può favorire le infezioni virali da Herpes simplex o da mollusco contagioso nelle persone con dermatite atopica. Inoltre, gli studi clinici non hanno confermato che il loro uso continuativo per anni possa aumentare il rischio d’insorgenza di linfomi cutanei. Pertanto, la monoterapia con tacrolimus o pimecrolimus è efficace nel lungo periodo nell’infanzia e negli adulti, sebbene non siano disponibili dati nei bambini di età inferiore ai due anni.

Gli antistaminici sistemici (anti-H1) sono efficaci solo per attenuare il prurito mentre gli antibiotici e gli antimicotici sono indicati quando è presente una sovra-infezione. Di solito, vengono consigliati antisettici quali il triclosano, la clorexidina, e il cristal violetto alla concetrazione 0,3% per ridurre la colonizzazione cutanea da parte del battere S. Aureus, la cui presenza è direttamente responsabile della severità della malattia che può essere esacerbata o scatenata anche da una sua specifica proteina.

Per evitare l’uso cronico degli antibiotici sono stati studiati e realizzati tessuti tecnologici, con i quali vengono confezionati indumenti intimi e non solo, le cui fibre sono caratterizzate da un agente antimicromibico AEGIS ADM 577/S efficace nel contrastare la colonizzazione cutanea dello S. Aureus e di conseguenza migliorare la dermatite atopica.

Anche la fototerapia UVA1 e UVB a banda stretta è indicata per il trattamento della dermatite atopica, soprattutto quando particolarmente estesa sul corpo, sebbene i benefici varino da persona a persona.

Farmaci sistemici

Nei casi gravi di dermatite atopica, oltre al trattamento topico, è indicata la somministrazione di farmaci sistemici. Il cortisone rappresenta ancora una volta la prima scelta, è rapidamente efficace ma deve essere somministrato solo a cicli e per brevi periodi. Possibili alternative sono la ciclosporina A o l’ azatioprina il cui dosaggio giornaliero è in funzione del peso della persona. Infine, solo per i casi particolarmente severi è indicato il micofenolato mofetil oppure il methotrexate.

Di recente, l’identificazione dei meccanismi e l’identificazione delle varie citochine che controllano la malattia ha avviato un nuovo percorso terapeutico con i farmaci biologici: rituximab (anti-CD20), efalizumab (anti-CD1), omalizumab (anti-IgE) e mepolizumab (anti-IL5).

Infine, nonostante alcuni dati della letteratura sui probiotici che modulano la flora intestinale e stimolano la risposta immunitaria, non sono stati inclusi nelle indicazioni delle linee guida perché a tutt’oggi mancherebbero i risultati scientifici di studi controllati che ne comproverebbero la reale efficacia nei casi severi o moderati di dermatite atopica.

La fototerapia in dermatologia per il trattamento (anche a domicilio) di Psoriasi e Vitiligine

I farmaci biologici rappresentano al momento l’ultima frontiera per il trattamento della psoriasi. Difficile prevedere quali saranno le terapie del futuro anche se personalmente mi piacerebbe immaginare un approccio sempre più individuale e personalizzato con maggiori percentuali di remissioni cliniche, lunghi intervalli liberi dalla malattia e, ovviamente, minori effetti collateraliper la persona.

Oggi, tra i vari trattamenti possibili, la fototerapia ricopre un ruolo importante. Il termine assolutamente generico si riferisce all’impiego dei raggi UV per il trattamento di molteplici dermatosi cutanee quali la psoriasi ma anche la vitiligine.

E’ esperienza comune delle persone con psoriasi che la loro la malattia migliori d’estate durante l’esposizione al sole:

  • raggi UV riescono a modulare l’eccessiva replicazione delle cellule dell’epidermide, rallentandola;
  • i raggi UV sono in grado di modulare i processi infiammatori delle placche psoriasiche scatenate dalle citochine prodotte da specifiche cellule quali: linfociti, monociti, macrofagi, fibroblasti… presenti a livello cutaneo.
sole

In seguito all’irraggiamento UV della pelle si osserva un diminuzione del rossore delle placche e un miglioramento progressivo della superficie cutanea che può arrivare ad assumere un aspetto del tutto normale.

Nel corso degli anni si è cercato di individuare quali fossero le lunghezze d’onda UV più efficaci per il trattamento della psoriasi e di definire un approccio terapeutico scientifico, chiamato fototerapia, per personalizzare e rendere riproducibile l’emissione dei raggi. Pertanto, agli inizi degli anni settanta furono impiegati dapprima gli UVA, successivamente gli UVB a banda larga, poi quelli a banda stretta e da ultimo il laser ad eccimeri.

PUVA terapia

Nel 1974, due dermatologi Parrish e Fitzpatrick pensarono di potenziare l’azione terapeutica degli UVA somministrando al paziente gli psoraleni, molecole utilizzate fin dall’antichità per il trattamento della vitiligine. Queste molecole, presenti in alcune piante quali l’Amni majus e la Psoralea corylifolia, assunte per bocca, vengono trasformate a livello epatico e poi diffondono in tutti i tessuti dell’organismo, cute compresa, attraverso la via ematica.

Gli psoraleni a livello cutaneo amplificano gli effetti terapeutici dei raggi UVA assorbiti.

Nasceva la PUVA terapia, un acronimo per indicare l’associazione di psoraleni e UVA. Il paziente con psoriasi eseguiva cicli di trattamento che prevedevano tre sedute a settimana a giorni alterni. Il dosaggio degli psoraleni veniva stabilito in base al peso corporeo della persona mentre la dose degli UVA, idonea per ogni fototipo, era individuata in base ad un protocollo ben preciso.

Lampade a vapore di mercurio a bassa pressione che si presentavano sotto forma di tubi fluorescenti contenuti in cabine esagonali o circolari emettevano gli UVA irradiando tutta la superficie cutanea del paziente, il quale doveva usare specifici occhiali di protezione per gli occhi. La naturale esposizione al sole diventava un trattamento medico codificato.

Fototerapia UVB a banda stretta

Successivamente, la fototerapia UVA è stata affiancata e poi pian piano quasi del tutto sostituita – sebbene ancora oggi alcuni pazienti eseguono regolarmente cicli di PUVA terapia – dagli UVB a banda larga e poi dagli UVB a banda stretta.

  • La fototerapia UVB a banda stretta non prevede l’assunzione di nessun farmaco, così come avveniva per la PUVA terapia;
  • il ciclo di trattamento prevede 3 sedute a settimana a giorni alterni e l’individuazione dei parametri ottimali di trattamento in base a specifici protocolli terapeutici.

Gli UVB a banda stretta (NB-UVB: narrowband ultraviolet), caratterizzati da un intervallo di lunghezze d’onda molto limitato pari a 311-312 nm, viene emesso da particolari lampade fluorescenti sviluppate da Philips.

  • Gli UVB a banda stretta controllano l’eccessiva replicazione cellulare perché inibiscono selettivamente il DNA cellulare responsabile dell’insorgenza della psoriasi;
  • modulano efficacemente l’azione dei processi infiammatori tipici della malattia;
  • per questi motivi molti lavori scientifici riportano percentuali maggiori di risoluzione completa pari al 63-80%.

Gli strumenti per la fototerapia

La fototerapia con UVB a banda stretta può essere eseguita:

  • total-body all’interno di cabine o su lettini – indicato per le persone con diffuso interessamento cutaneo della malattia;
  • in maniera localizzata tramite singoli spot, emessi da dispositivi portatili quali un pettine dotato di lampade dedicate, solo sulle macchie evitando di esporre la cute sana ai raggi UVB.

La maggiore tollerabilità, l’assenza di possibili effetti collaterali dovuti all’assunzione di farmaci per bocca, il minor numero di effetti collaterali suggeriscono la terapia con UVB a banda stretta quale opzione terapeutica di prima scelta nell’ambito della fototerapia.

Da segnalare, infine, che di recente sistemi laser, chiamati ad eccimeri, sono stati sviluppati per focalizzare ulteriormente l’emissione dei raggi UVB a banda stretta.

I risultati clinici nei soggetti che eseguono la fototerapia sono apprezzabili dopo 9-15 sedute di trattamento e per evitare la secchezza cutanea, dovuta all’emissione dei raggi ultravioletti, è indicato idratare la pelle quotidianamente durante il trattamento. L’idratazione, inoltre, favorisce l’eliminazione delle squame dalle placche di psoriasi e aumenta l’efficacia della fototerapia.

Infine, consiglio sempre di proteggere la pelle dei soggetti che eseguono la fototerapia, in quanto pur essendo un trattamento dermatologico eseguito secondo protocolli codificati, potrebbe rappresentare un fattore di rischio per l’insorgenza dei tumori della pelle, specie se dopo ci si espone alla luce naturale senza un’adeguata protezione.

In questi casi, infatti, si verificherebbe un effetto cumulativo dei raggi UV sulla pelle, dovuto, in parte, all’emissione controllata e dosata durante il ciclo di fototerapia mentre la restante, quella naturale, non assolutamente valutabile. Da qui, l’indicazione di proteggere adeguatamente la pelle.

HCV – Epatite C e dermatologia

Quali i soggetti a rischio di contrarre l’infezione da virus C? Quali i sintomi dell’infezione? Quali le aree geografiche maggiormente interessate dall’infezione? E’ più pericolosa l’epatite B oppure l’epatite C? L’epatocarcinoma cos’è? Come sospettarla e diagnosticarla? Il virus C: solo un problema del fegato?

Le trasfusioni di sangue sono sicure? E l’esecuzione dei tatuaggi o dei piercing?

Ne parla la prof.ssa Carmen Vandelli del Dipartimento Integrato di Medicine e Specialità Mediche del Policlinico di Modena nell’intervista di Myskin.

HCV – epatite C e dermatologia: testo dell’intervento

L’epatite da virus C, riconosciuta dal 1989, prima si parlava di una forma non A e non B, è una patologia a diffusione ubiquitaria, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, e con una distribuzione geografica diversa in funzione della latitudine. In Italia, ad esempio le regioni del nord hanno una prevalenza decisamente molto più bassa rispetto alle regioni del sud, riferendomi in questo modo alla Calabria, alla Puglia, alle zone insulari.

La trasmissione avviene attraverso la via ematica o attraverso la tossicodipendenza, sempre con scambio di siringhe di sangue contaminato, oppure attraverso piercing o pratiche sessuali anomale, perché all’interno della coppia con una vita sessuale normale il virus non viene trasmesso sessualmente, come già pubblicato su contributi di riviste di prestigio.

La sintomatologia può essere completamente silente e quindi chi ne è portatore non se ne accorge, a meno che non venga eseguito il test specifico per la dimostrazione dell’infezione, quindi anti-HCV.

Oggi, non ha senso eseguire il doppio test, come si faceva in passato, metodica ELISA o Radio Immuno Assay, perché già la metodica ELISA è sufficiente per determinarne l’avvenuto contagio. E’ ovvio che questo non ci basta e si deve procedere ad un test successivo che è la valutazione della viremia per vedere se il soggetto è infettante ed è infettato al momento in cui viene all’osservazione.

La sintomatologia è molto variabile da nessun sintomo e nessun disturbo fino nelle fasi più avanzate della patologia allo scompenso con edemi alle gambe, aumento di volume dell’addome, ma siamo in una fase molto avanzata.

Di solito, in media, dal fegato normale che s’infetta fino al fegato così rovinato come si ha nella cirrosi scompensata possono decorrere dai 20 ai 30 anni. Una minima parte di questi soggetti, può evolvere nella misura del 10% circa anche a malattie ancor più grave che è l’epatocarcinoma.

Di qui la necessità di seguire questi pazienti nel tempo, con controllo ecografici periodici, e soprattutto la necessità di poterli identificare in una fase precoce della malattia perché tanto più la malattia è di recente insorgenza tanto minore è il danno epatico, tanto più il soggetto è giovane, al di sotto dei 40 anni, tanto più elevata è la possibilità di rispondere ai trattamenti antivirali che oggi abbiamo a disposizione.

La condizione di evoluzione può essere anche asintomatica e con transaminasi normali, ed è il motivo per cui non ci basta conoscere il test di funzionalità epatica di routine, quelli che abitualmente si fanno quando il paziente chiede al proprio medico di famiglia un semplice check-up, tipo transaminasi, bilirubina, fosfatasi o gamma GT, perché ci sono un 10% delle epatiti di tipo C che evolvono a transaminasi normali. E quindi uno potrebbe essere scambiato per un soggetto apparentemente sano se non c’è l’indicazione ad andare a cercare il virus. E allora il problema resta: dove e quando fare il test per dimostrare l’infezione?

Anzitutto in tutti i soggetti che sono stati sottoposti ad interventi prima degli anni ’75, in linea di massima. Cioè l’epoca in cui si è passati dalle siringhe di vetro alle siringhe monouso.

In chi oggi invece, in un ambiente che dovrebbe essere considerato molto sicuro, viene sottoposto a degli interventi in day-surgery: ginecologici, ortopedici, oculistici o in ambiente dentistico, sono le sedi dove ancora oggi si può purtroppo ancora contrarre l’infezione. Da questo punto di vista sono tutelati molto di più i donatori di sangue perché sottoponendosi a controlli periodici quando fanno la donazione ogni tre o quattro mesi, abitualmente vengono sottoposti al test.

Quindi il messaggio che noi vogliamo dare alla popolazione è che laddove c’è un sospetto che si possa essere contratta l’infezione si deve eseguire l’anti HCV, e chiedere al proprio medico di poter fare questo test. E laddove questo risulta positivo procedere ad ulteriori accertamenti in funzione del quadro clinico.

Raccomandiamo a chi è portatore del marker dell’infezione un modello di vita regolare, l’astensione totale da bevande alcooliche di qualunque genere, birra compresa, perché queste favoriscono l’insorgenza di un ulteriore danno del fegato e l’evoluzione verso l’epatocarcinoma, di non diventare obesi o aumentare il proprio peso, perché l’accumulo di grasso favorisce la replicazione di alcuni sottotipi particolari del genotipo del virus C.

Infezione Virus C: solo un problema del fegato?

Il virus C, inoltre, ha una localizzazione, un tropismo, non solo verso il fegato, e quindi non dà luogo solo a malattie di fegato, interessa anche altri organi apparati, in particolare quello cutaneo con la comparsa di manifestazioni di interesse dermatologico, localizzazioni descritte a livello del tessuto nervoso, localizzazioni a livello del rene con la comparsa di manifestazioni di tipo glommerulo-nefritico, o localizzazioni più estese accompagnate da manifestazioni cutanee di interesse misto tra il patologo e il dermatologo o l’ematologo che sono le crioglobulinemie con componenti di porpore periferiche e di tipo vasculitico.

Un elemento inoltre importante è che i pazienti affetti da epatite C, o almeno una parte di essi, si lamentano di una marcata astenia (riduzione della forza muscolare), o possono andare incontro anche a manifestazioni di tipo depressivo che spesso richiedono l’intervento dello psichiatra e che non vengono riconosciute nel loro meccanismo eziopatogenetico.

Studi recenti dimostrano che la qualità di vita del paziente affetto da epatite C è peggiore rispetto ad un pari danno a livello epatico di una patologia da virus B, quindi il virus C è responsabile di una patologia e di una sintomatologia, a parità di danno epatico, più grave nei soggetti che hanno l’infezione da virus C rispetto al virus B. E di qui anche l’interesse medico-legale di questa situazione che può avere in futuro dei risvolti interessanti.

La solita dermatite?

«Dottore ho una dermatite! Non ho mai avuto problemi di pelle, cosa mi sta succedendo?»

Semplice liquidare la persona con un consiglio terapeutico per risolvere in maniera brillante l’infiammazione della pelle – scena del crimine dove è stato compiuto un delitto, un’aggressione che si potrebbe ripresentare dopo il ciclo di trattamento se non viene individuato il colpevole.

La terapia migliora e risolve i segni e sintomi della manifestazione ma non interviene sulla causa responsabile del problema.

«Dermatite» è un termine assolutamente generico per indicare qualunque tipo di infiammazione della pelle, conseguente ad esempio ad un’irritazione oppure a un’allergia: le cause responsabili del problema possono essere le più svariate.

«Dottore, mi creda non ho fatto nulla di diverso. Faccio sempre le stesse cose.»

Apparentemente nessun indizio eppure, quella piccola e insignificante chiazza di dermatite aveva molto da raccontare.

La manifestazione era comparsa in poco tempo era localizzata solo ad una palpebra, quella inferiore sinistra.

Difficile pensare allo schizzo di un liquido irritante. La morfologia della dermatite sarebbe stata sicuramente differente, caratterizzata da un’area centrale di forma quasi circolare e poi a raggiera dalla presenza di chiazze ovali più piccole.

La dermatite si presentava molto allungata, sottile in prossimità del canto mediale dell’occhio, vicino all’ala del naso, mentre si allargava progressivamente nella direzione opposta, fino a sfumare gradualmente.

La superficie della chiazza appariva irregolare, ricoperta da piccole esulcerazioni, piccole abrasioni, e croste sierose che con un po’ di fantasia era possibile paragonare alle onde del mare, orientate nella stessa direzione verso l’esterno dell’occhio come se spinte da una corrente.

Presente il prurito, sebbene modesto, come in ogni dermatite che si rispetti.

L’ipotesi dell’urto laterale non reggeva, mancavano chiari segni di contusione, inevitabili in un’area così delicata.

Il trauma seppure lesivo per la cute doveva essere stato molto leggero, quasi impercettibile. Ma cosa poteva essere stato?

Il problema era confinato solo sulla cute, proprio al confine della rima palpebrale inferiore, nessun problema a carico dell’occhio. Pertanto, non era possibile ipotizzare l’azione irritante di un collirio che, instillato sulla congiuntiva oculare, fosse colato sulla pelle. E poi la dermatite non presentava assolutamente una morfologia che soddisfacesse la legge gravitazionale.

La forma complessiva della dermatite non era casuale, forse la persona aveva delicatamente sfiorato la palpebra, magari con la superficie laterale dell’indice della mano sinistra che poi ad un certo punto era stato leggermente ruotato, un movimento che avrebbe aumentato la superficie di contatto del polpastrello con la palpebra stessa.

«Ora ricordo, ieri mentre confezionavo una pianta di euforbia ho avvertito un leggero fastidio, forse dovuto ad un ciglio, e mi sono sfiorata la palpebra proprio con l’indice.»

Il caso era risolto.

Il succo lattiginoso contenuto negli steli della pianta è fortemente irritante e accidentalmente aveva sporcato le dita, in particolare l’indice, che con un gesto del tutto involontario era venuto a contatto con la palpebra causando la solita… dermatite.

Panoramica privacy

I cookie sono piccoli file di testo che possono essere utilizzati dai siti web per rendere più efficiente l'esperienza per l'utente.

La legge afferma che possiamo memorizzare i cookie sul suo dispositivo se sono strettamente necessari per il funzionamento di questo sito. Per tutti gli altri tipi di cookie abbiamo bisogno del suo permesso.

Se desideri saperne di più visita la nostra informativa privacy e cookies policy. Puoi rivedere e modificare le tue scelte in qualsiasi momento.