La salute della pelle a cura di
Dermatologia Myskin

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Il sole e la cute: interazione, danni e conseguenze. La guida completa

Arriva l’estate e, ridondante, il messaggio di proteggere la pelle dall’esposizione al sole risuona sui media.

Molti sono consapevoli dell’importanza della fotoprotezione per evitare l’insorgenza dei tumori della pelle, melanoma in primis, eppure tali tumori sono solo un aspetto dei possibili danni cutanei indotti dal sole.

Infatti i danni cutanei, generalmente dovuti alla nostra sconsiderata esposizione solare, possono essere distinti in:

  • acuti
  • cronici
  • immunosoppressione cutanea

Prima di analizzarli è necessario un passo indietro per descrivere lo spettro elettromagnetico del sole, spiegare l’interazione dei diversi tipi di radiazione emessa con la pelle, illustrarne i meccanismi d’azione e, infine, le conseguenze.

La radiazione solare

Il sole è una fonte luminosa che emette un ampio spettro di radiazione elettromagnetica della quale, però, l’occhio umano percepisce solo una parte – quella cosiddetta visibile.

Lo spettro di luce visibile non è altro che l’insieme dei colori che è possibile ammirare nell’arcobaleno.

Ognuna di queste cromie rappresenta una lunghezza d’onda la cui unità di misura è il nanometro (nm): nel caso della luce visibile tali lunghezza d’onda variano fra i 400 nm del violetto ai 760 nm del rosso.

Al di sotto dei 400 nm il sole emette i raggi ultravioletti (UVR, 200-400 nm) e al di sopra dei 760 nm i raggi infrarossi (IR, 760-106 nm).

Anche per gli UVR è possibile distinguere singole lunghezze d’onda: i raggi ultravioletti A (UVA, 320-400 nm), i raggi ultravioletti B (UVB, 290-320 nm) e i raggi ultravioletti C (UVC, 100-290 nm).

Eccezion fatta per gli UVC, bloccati dallo strato di ozono, tutte le restanti radiazioni – gli UVA, gli UVB, il visibile e gli infrarossi – arrivano sulla terra e di conseguenza interagiscono con la nostra pelle.

L’interazione è possibile tramite l’assorbimento, la riflessione sulla superficie cutanea o lo scattering.

L’entità dell’interazione varia in base alla quantità di energia di ogni radiazione descritta. Pertanto, è intuitivo che maggiore sarà l’energia più forte sarà l’interazione con la cute e di conseguenza anche il possibile danno cutaneo.

Il carico di energia dei singoli spettri emessi dal sole è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda e la lunghezza d’onda è direttamente proporzionale alla penetrazione nella pelle.

Praticamente, per quanto riguarda l’energia, gli UVB hanno maggiore energia degli UVA i quali hanno maggiore energia del visibile il quale ha un’energia maggiore dell’infrarosso, mentre, per quanto riguarda la capacità di penetrare nella pelle, gli infrarossi penetrano più in profondità e gli UVB penetrano meno di tutti.

Il 5% della radiazione UVR che arriva sulla pelle è rappresentata dagli UVB mentre il 95% dagli UVA.

Ricapitolando, gli UVB penetrano poco nella pelle, vengono bloccati negli strati superficiali della pelle ma hanno un elevato carico di energia mentre all’estremo opposto abbiamo gli IR che penetrano molto più in profondità nella cute, fino al derma, ma hanno una bassa energia.

A questo punto, s’intuisce che gli UVB rappresentano la radiazione teoricamente più pericolosa per la pelle, sebbene tutte, anche se in misura differente, sono in grado di causare danni alla pelle.

Le condizioni atmosferiche, la latitudine, l’altitudine, le stagioni e l’ora del giorno incidono sulla quota di UVR che arrivano sulla terra.

La pelle per proteggersi dall’aggressione dei raggi solari mette in atto una serie ben precisa di meccanismi di difesa: aumenta il suo spessore cutaneo, libera e sintetizza melanina per formare uno scudo di protezione.

Tali meccanismi di protezione non sono ugualmente efficace per tutti gli individui, basti pensare alla capacità di abbronzarsi dei soggetti di carnagione chiara.

Interazione luce solare e pelle

Se da un lato l’interazione tra la luce solare e la pelle è fondamentale, ad esempio per la sintesi di vitamina D e per stimolare la produzione di ormoni che regolano il ciclo del sonno-veglia, dall’altro può causare effetti collaterali, che si manifestano in seguito ad un danno diretto dei raggi solari oppure indiretto. Di seguito le differenze.

Radiazione solare e pelle: il danno acuto

Ad occhio nudo, il primo segnale che è possibile osservare sulla pelle in seguito al danno acuto è l’arrossamento, un eritema localizzato su tutte le aree foto-esposte.

Successivamente, dopo qualche ora, il colore della pelle cambia, si abbronza, in seguito alla liberazione di melanina. Nella cute è sempre presente una certa quantità di melanina pre-formata che viene rilasciata immediatamente dopo la prima esposizione al sole.

Infine, la pelle inizia ad ispessirsi. Immaginate la pelle di un contadino che per motivi professionali è esposto per lunghi periodi dell’anno al sole.

Microscopicamente, invece, aumenta la vascolarizzazione e la vasodilatazione dei vasi sanguigni della cute e vengono liberate una serie di mediatori dell’infiammazione quali le prostaglandine, alcuni tipi di citochine, chemochine, istamina e ossido nitrico.

Tutte queste sostanze innescano un processo infiammatorio apprezzabile, appunto, con l’arrossamento della pelle.

Il danno acuto è dovuto essenzialmente ai raggi UVB che da un lato inducono un’infiammazione e dall’altro determinano, dato il loro elevato livello di energia, un danno diretto al DNA delle cellule dello strato basale dell’epidermide.

Il DNA, danneggiato dagli UVB, forma i cosiddetti dimeri di pirimidina: segno di un’azione mutagena.

Fortunatamente, le cellule hanno dei validi sistemi di riparazione dei danni a carico del DNA. Uno tra tutti la proteina p53, una sentinella in grado di bloccare la replicazione delle cellule con DNA danneggiato oppure, se il danno è notevole, induce l’apoptosi, la morte programmata di tali cellule.

Un meccanismo perfetto se non fosse che…

Continuando l’esposizione al sole, i raggi UVA interagiscono con specifiche molecole cutanee (acido urocanico, NADH, melanina, … ), cedono loro energia che viene poi dissipata interagendo con altre molecole, innescando, in questo modo una reazione chimica a catena: un’ossidazione.

Tale reazione chimica favorisce la formazione di radicali liberi dell’ossigeno, ossigeno singoletto, perossido d’idrogeno… che, a loro volta, interagendo con le membrane cellulari, le proteine e il DNA creano indirettamente un ulteriore danno cellulare oltre a quello descritto.

Danno acuto diretto: azione mutagena degli UVB con formazione dei dimeri di pirimidina. Danno acuto indiretto: ossidazione delle membrane cellulari e danni al DNA da parte dei radicali liberi dell’ossigeno, reazione scatenata essenzialmente dagli UVA.

Radiazione solare e pelle: il danno cronico

Il danno cronico è quello di piccola entità rispetto al precedente ma sistematicamente reiterato nel tempo.

Oggi sempre più spesso viene sottolineata l’importanza degli UVA quale causa del problema.

Gli UVA, pur avendo un carico di energia inferiore rispetto agli UVB, sono in grado di penetrare più in profondità nella cute, fino al derma papillare e attraverso un danno indiretto, simile a quello appena spiegato, inducono il photoaging, l’immunosoppressione, e la foto-carcinogenesi.

Il termine photoaging è stato coniato per la prima volta da Kligman per descrivere gli effetti cronici degli UVR sulla pelle.

A differenza dell’invecchiamento cutaneo intrinseco, quello fisiologico dovuto all’età anagrafica e che si manifesta con la presenza di rughe sottili e modesta lassità cutanea, il photoaging o invecchiamento cutaneo estrinseco è la conseguenza della cronica esposizione al sole.

Clinicamente si manifesta con: secchezza cutanea, chiazze brunastre al dorso delle mani, avambracci, volto, dorso, rughe marcatamente profonde, teleangectasie, marcata lassità cutanea, macchie color porpora e precancerosi cutanee. Di recente, alcuni autori hanno coniato il termine dermatoporosi per raggruppare in un’unica sindrome questa manifestazione che riguarda il 60% degli soggetti di età superiore ai 60 anni.

Invece, per quanto riguarda l’immunosoppressione, ovvero l’abbassamento delle difese cutanee, una conseguenza molto comune e nota è l’herpes labiale che sistematicamente si manifesta in alcuni soggetti durante l’estate.

In questi casi, i raggi UVA modulano negativamente la funzionalità del sistema immunitario e l’infezione virale, già presente nei gangli spinali ma latente, è in grado di indurre la malattia.

L’immunosoppressione oltre a favorisce le infezioni virali cutanee abbassa anche il livello di sorveglianza sullo sviluppo di cellule tumorali che, a questo punto, possono svilupparsi e replicarsi, favorendo l’insorgenza dei tumori della pelle.

In particolare, è stato dimostrato che le lunghezze d’onda critiche per l’immunosoppressione sono la 300 nm, tipica degli UVB, e la 370 nm degli UVA. La prima ha una capacità immunosoppressiva 20 volte superiore alla seconda.

Quindi, siccome gli UVA e gli UVB, insieme, concorrono nell’indurre il danno cutaneo, l’FDA ha stabilito che solo i filtri solari che garantiscono una foto-protezione anche nei confronti degli UVA – tecnicamente quelli che hanno una lunghezza d‘onda critica > 370 nm – possono essere definiti protettivi a largo spettro.

In conclusione, lo sviluppo dei tumori della pelle, la carcinogenesi, è un processo multistep dove sono necessari più momenti che simultaneamente devono verificarsi e concatenarsi: il danno diretto-indiretto del DNA cellulare, la mancata riparazione di tale danno perché grave fin dall’inizio e/o in seguito all’immunosoppressione, il conseguente sviluppo e replicazione delle cellule tumorali.

Attenzione, a non commettere l’errore di pensare che il rischio di tale possibilità sia basso perché è sufficiente sapere che in Italia, così come nel resto del mondo, l’incidenza del melanoma e degli altri tumori cutanei è costante aumento sia negli uomini sia nelle donne.

Radiazione solare e pelle: il visibile e gli infrarossi

Di recente, Mahmoud ha studiato e descritto gli effetti della luce visibile e degli infrarossi sulla pelle ed ha dimostrato che anche queste lunghezze d’onda sono causa di:

  • stress ossidativo
  • eritema, arrossamento
  • mutazioni genetiche
  • invecchiamento cutaneo precoce

Il meccanismo d’azione non è stato ancora perfettamente chiarito ed è stato ipotizzato che sia il visibile sia gli infrarossi generano delle reazioni chimiche di tipo ossidativo che favoriscono la formazione, ancora una volta, di radicali dell’ossigeno.

In questi casi, però, la radiazione interagisce con molecole cutanee differenti da quelle citate prima e in particolare con: β-carotene, porfirine, bilirubina, melanina e il citocromo c ossidasi mitocondriale.

Semplificando: il risultato finale dell’interazione tra i diversi tipi di radiazione solare e le molecole cutanee sono sempre i radicali liberi; cambiamo le lunghezze d’onda e il target, in quanto ognuna di essa è in grado di interagire solo con specifici bersagli.

Dall’interazione ne consegue che il bersaglio accumula energia che, poi, dissipa sulle molecole adiacenti formando radicali liberi dell’ossigeno e poi… ormai dovreste già sapere come continua la reazione.

Raccomandazioni

Se siete arrivati fino a questo punto sicuramente avrete compreso l’importanza di:

  • esporsi correttamente al sole evitando di farlo durante le ore centrali della giornata
  • applicare sulla pelle un filtro solare a largo spettro
  • indossare tessuti specializzati in grado di proteggere la pelle

Ci sono però due novità:

E’ possibile immaginare di aiutare le cellule cutanee a riparare il danno al DNA indotto dagli UVB e/o a smaltire lo stress ossidativo cellulare dovuto ai raggi UV?

La risposta è sì. Un sì che deve essere ripetuto due volte.

Esiste un sistema di fotoprotezione che oltre a garantire una protezione a largo spettro con SPF 50 contiene al suo interno un enzima: la fotoliasi.

La fotoliasi, estratta dal cianobatterio Anacystis nidulans, è in grado di riparare i danni al DNA. Applicato sulla pelle prima di esporsi al sole viene attivato dalla luce e così come un meccanico, molecolare, rimuove i dimeri di pirimidina indotti dagli UVB, riparando il danno genetico.

Studi in vivo hanno dimostrato che la fotoliasi è in grado di rimuovere fino al 93% dei dimeri di pirimidina.

In questo modo la foto-protezione si sviluppa su due livelli distinti e complementari: evitare che i raggi UV interagiscano con le cellule cutanee, grazie alla presenza di un fattore di protezione molto alto, e riparare gli eventuali danni degli UVB che riuscirebbero a interagire con il DNA.

In una parola, si tratta di una fotoprotezione pro-attiva

E non è tutto perché come descritto gli UV, specie gli UVA, sono in grado di indurre uno stress ossidativo responsabile di una serie di danni cellulari di tipo degenerativo, compreso l’accorciamento dei telomeri, in quanto aumenta l’espressione di geni quali il FOS (Finkel-Biskis-Jinkins Osteosarcoma).

telomeri, che rappresentano la parte terminale del cromosoma, sono costituiti da sequenze di DNA altamente ripetuto e svolgono l’importante funzione di salvaguardia del codice genetico.

Il loro accorciamento, fisiologico dovuto all’età anagrafica dell’individuo ma anche ai raggi UVR, è responsabile dell’invecchiamento e del rischio di carcinogenesi cutanea.

E’ intuitivo, quindi, che meno i telomeri si accorciano meno s’invecchia e più si riduce il rischio di insorgenza dei tumori della pelle.

L’enzima endonucleasi, estratto dal batterio Micrococcus luteus, modulando negativamente lo stress ossidativo e quindi l’espressione del gene FOS, evita l’accorciamento di tali telomeri.

In questo caso è sufficiente applicare sulla pelle, entro 30 minuti dall’esposizione al sole, prodotti contenenti tali enzima per eliminare lo stress ossidativo subito dalla pelle.

In una parola, si tratta di una fotoprotezione retroattiva.

Take home message

Siete coscienti dei danni che il sole può indurre sulla pelle e siate sensibili all’importanza di adottare specifiche misure comportamentali e di stili di vita per una corretta e piacevole esposizione al sole!

Il test genetico per l’alopecia androgenetica: chi deve farlo e come funziona

Alopecia androgenetica: ricetta per perdere i capelli.

Prendete l’ormone androgeno testosterone, trasformatelo in diidrotestosterone (DHT) e fatelo interagire con i follicoli del cuoio capelluto per iniziare a notare una miniaturizzazione dei capelli e un arretramento della linea frontale dell’attaccatura.

Continuate a mantenere nel tempo l’interazione tra il DHT e gli altri follicoli per un progressivo peggioramento che nell’uomo si manifesterà con lo sviluppo di un’area diradata al vertice del capo e nella donna in un diradamento sempre più evidente dell’area centrale del cuoio capelluto.

Infine, confrontate il risultato ottenuto con la scala di Hamilton e con quella di Ludwing per definire, rispettivamente nell’uomo e nella donna, quanto ottenuto.

Ecco spiegato semplicemente il meccanismo alla base della perdita dei capelli. È esperienza comune che:

  • l’alopecia androgenetica non si manifesta per tutti
  • la perdita dei capelli non è uguale per tutti
  • la perdita dei capelli non interessa mai le aree temporali e occipitale del cuoio capelluto
  • il trattamento stabilizza il problema ma non favorisce la ricrescita dei capelli che sono andati persi

Quando e chi manifesta l’alopecia androgenetica

Nell’uomo il problema inizia dopo i 18-20 anni e, quando particolarmente aggressivo, inizia anche prima, verso i 15-18 anni.

Nella donna, invece, insorge generalmente dieci anni dopo e la gravidanza e la pre-menopausa possono essere fattori scatenanti.

Inoltre, è noto che una metà delle donne con alopecia androgenetica ha l’ovaio policistico mentre l’altra è in sovrappeso ed entrambe queste condizioni, sebbene con meccanismi differenti, aumenterebbero la concentrazione di testosterone.

Tuttavia, l’alopecia androgenetica si manifesta solo nei soggetti predisposti, coloro i quali a livello del cuoio capelluto sono dotati dell’enzima 5 alfa reduttasi in grado di trasformare il testosterone in diidrotestosterone, l’ormone che come accennato all’inizio interagisce con i follicoli e induce la calvizia.

Più precisamente, i soggetti con alopecia androgenetica hanno, nei follicoli del cuoio capelluto, livelli elevati di 5 alfa reduttasi, che è maggiormente presente nei follicoli della zona centrale e del vertice della testa; motivo per cui tale perdita di capelli non si manifesta mai nelle aree temporali e alla nuca.

Quindi, ricapitolando: i soggetti con alopecia androgenetica hanno una gran quantità di un trasformatore, la 5 alfa reduttasi, che dalla pubertà in poi inizia a modificare il testosterone normalmente prodotto in diidrotestosterone, che tra le varie funzioni si lega ai follicoli, modificandoli morfologicamente e funzionalmente.

I follicoli, infatti, si miniaturizzano progressivamente, si superficializzano e il loro ciclo vitale viene forzato verso la fase di caduta (telogen) del capello.

Tali alterazioni sono irreversibili e quando un paziente si accorge del problema molto probabilmente vi è già una riduzione del 50% dei capelli.

Ora, siccome le terapie mediche attualmente a disposizione servono solo a preservare i capelli è facile intuire che più precocemente si riesce ad intervenire migliore sarà il risultato.

Test genetico per l’alopecia androgenetica

Diversi studi scientifici hanno dimostrato l’importanza nell’alopecia androgenetica del gene AR, localizzato sul cromosoma X, che codifica per il recettore degli androgeni.

Un recettore è una «serratura», presente sul follicolo, e il diidrotestosterone è la sua chiave ed è solo in seguito alla loro interazione che s’innesca la caduta dei capelli.

Per quanto riguarda il gene AR esistono due varianti alleliche: G e A.

In particolare, nell’uomo se presente la variante G del gene AR il rischio di sviluppare l’alopecia è alto, pari al 70%, mentre se presente la variante allelica A è basso.

Al contrario, nella donna non è importante il ruolo svolto dalla serratura del recettore, così come nell’uomo, bensì quante volte a livello del gene AR è ripetuta la sequenza nucleotidica CAG.

Il suo valore (The CAG repeat score) è inversamente proporzionale al rischio di sviluppare alopecia androgeneteica. Infatti, più è basso maggiore è il rischio.

Oggi è possibile eseguire un test genetico per identificare, nell’uomo, la variante del gene AR e per quantificare, nella donna, il valore del CAG repeat score.

Il risultato del test permette di stimare il rischio individuale di alopecia anrodrogenetica.

Da un punto di vista pratico si utilizza un kit in cui sono presenti due tamponi per prelevare le cellule presenti sulla guancia interna della bocca. I tamponi vengono poi spediti in un laboratorio specializzato dove viene effettuata l’analisi genetica descritta.

Il test genetico è un prezioso screening particolarmente indicato per gli adolescenti che iniziano a notare una perdita dei capelli, oppure per i soggetti con familiarità per alopecia androgenetica.

Il risultato del test, importante per stimare il rischio di alopecia, è fondamentale per stabilire fin da subito il miglior trattamento possibile per ogni specifico individuo. Di conseguenza il paziente parteciperà attivamente seguendo le mirate indicazioni terapeutiche fornitegli per un risultato finale migliore.

Conclusioni

Se fino a ieri il tricogramma era l’unico strumento per la diagnosi clinica dell’alopecia androgenetica e per ipotizzare il decorso della malattia, oggi il test genetico consente un deciso passo in avanti nella gestione della malattia e del paziente con alopecia androgenetica.

Infatti, per quanto riguarda la gestione della malattia è possibile fare una previsione sul rischio e sulla gravità della stessa mentre per quanto riguarda la gestione del paziente, siccome è stato dimostrato che i soggetti con alopecia androgenetica hanno un rischio maggiore di sviluppare una sindrome metabolica, che potrebbe favorire lo sviluppo di diabete di tipo 2, o problematiche cardio-vascolari, ipertensione arteriosa compresa, l’attenzione del medico non si limiterà solo sulla caduta dei capelli ma si focalizzerà sul monitoraggio dello stato di salute generale della persona.

Gli anziani e l’invecchiamento della pelle: la dermatoporosi. Cause, manifestazioni e trattamento

Nel 2007 i dermatologi svizzeri G. Kaya e J. Saurat hanno «coniato» il termine dermatoporosi per raggruppare e descrivere in un’unica sindrome tutte quelle manifestazioni tipiche dell’anziano che si manifestano agli avambracci, al dorso delle mani, alle gambe e si presentano come cute sottile, atrofica, chiazzata da macchie multiple color porpora e costellata da lesioni cicatriziali biancastre di forma stellata.

Dovuta al fisiologico invecchiamento della pelle e alla cronica esposizione al sole, la dermatoporosi si manifesta anche nei soggetti che per lunghi periodi assumono per via sistemica o applicano sulla pelle corticosteroidi.

Le manifestazioni cliniche della dermatoporosi sono l’espressione diretta di una fragilità della pelle – definita come insufficienza cronica cutanea – ed è proprio per questo motivo che non rappresenta solo un disagio estetico ma anche funzionale.

La pelle, frequentemente, può lacerarsi per un nonnulla, le ferite tardano a guarire e sanguinamenti spontanei possono creare piani di clivaggio sottocutanei con il rischio di ulcere e necrosi dei tessuti.

Se l’osteoporosi rappresenta la sindrome di fragilità delle ossa, la dermatoporosi lo è per la cute e come la prima anche la seconda deve essere prevenuta e curata.

La dermatoporosi, che si manifesta in un terzo dei soggetti di età superiore ai 60 anni, sarebbe dovuta ad un difetto funzionale dello ialurosoma, un piccolo organello localizzato a livello della membrana dei cheratinociti e implicato sia nel metabolismo dell’acido ialuronico sia nella trasmissione di segnali cellulari che coinvolgono specifici fattori di crescita.

Prevenzione

Prima di tutto bisogna distinguere la dermatoporosi «fisiologica», dovuta all’avanzare dell’età, da quella indotta dall’uso cronico di farmaci, quali appunto i corticosteroidi.

Nel primo caso, è possibile contrastare i segni della dermatoporosi con uno stile di vita sano che possa preservare lo stato di salute generale della persona negli anni, penso ad esempio ad una dieta varia ricca di frutta e verdura e ad un’adeguata attività motoria sistematica.

 

Inoltre fin da giovani, anche quando non sono presenti problematiche dermatologiche, è indicata una corretta igiene della pelle, utilizzando detergenti non aggressivi e non tralasciando l’idratazione, intesa sia come introito di acqua sia come applicazione di topici adeguati sulla pelle.

A tal proposito, è possibile applicare creme il cui contenuto mima i lipidi della barriera cutanea esterna, la cui sintesi tende a calare nel corso degli anni.

Infine, attenzione alla sconsiderata e cronica esposizione al sole responsabile di danni cellulari che accelerano l’invecchiamento cutaneo. In tal caso, è sempre indicata fin da giovani la fotoprotezione della propria pelle con i solari oppure indossando tessuti tecnici specializzatianti-UV.

Al contraio, nel caso della dermatoporosi indotta dall’uso cronico di steroidi attenzione al «fai da te» sia per quanto riguarda l’assunzione di compresse o l’applicazione di creme con tale principio. Alcune malattie sistemiche, specie quelle reumatologiche, richiedono a volte la somministrazione cronica di tali farmaci: è fondamentale attenersi sempre alle indicazioni dello specialista.

Tuttavia anche in questi casi sono raccomandate, compatibilmente con le condizioni generali di salute, le indicazioni riguardanti lo stile di vita e alimentari citate.

Trattamento

La retinaldeide e i frammenti di acido ialuronico, contenuti in alcune creme, assorbiti dalla pelle sono in grado rispettivamente di stimolare il rinnovamento cellulare e di indurre il metabolismo dell’acido ialuronico endogeno migliorando sensibilmente il trofismo della cute dell’anziano. Se la cute si presenta anche particolarmente xerotica, squamosa e disidratata, è necessario idratare applicando creme dermoprotettive che garantiscano un’emollienza prolungata.

Insufficienza renale cronica: con la dialisi inizia il prurito. Cosa fare per eliminarlo

Le alterazioni della pigmentazione cutanea e il prurito rappresentano rispettivamente la manifestazione e il sintomo più frequente nei soggetti con insufficienza renale cronica (IRC).

L’alterazione della pigmentazione cutanea – che si accentua, diviene più scura – si manifesta su tutta la superficie corporea e prende il nome di melanodermia. Essa è dovuta all’aumento in circolo di β-MSH – l’ormone che stimola la melanogenesi – la cui eliminazione sarebbe ridotta.

Inoltre, in seguito all’anemia che spesso si associa nei soggetti sottoposti a dialisi, è presente il pallore.

La melanodermia e il pallore sono entrambe responsabili del caratteristico colore terreo dei soggetti sottoposti a dialisi.

Il prurito, invece, è accusato da più del 50% dei soggetti affetti da IRC e probabilmente, secondo alcuni studi, la percentuale è sottostimata.

Al contrario, l’insufficienza renale acuta non lo causa mai.

La maggior parte dei pazienti con IRC riferiscono la comparsa e il peggioramento di tale sintomo durante la depurazione extrarenale, altri immediatamente dopo mentre solo in pochi riferiscono che l’emodialisi lo attenua.

Quindi se da un lato è certa l’associazione prurito e IRC, dall’altro è presente una notevole eterogeneità per quanto riguarda la correlazione dialisi e prurito.

Da quest’ultima considerazione è implicito ipotizzare che, sebbene ancora ignoti, esistono diversi meccanismi patogenetici responsabili dell’insorgenza e di tale sintomo:

  • ipervitaminosi A
  • secchezza cutanea
  • iperfosforemia – anomalia del metabolismo del fosforo e del calcio
  • ipermagnesemia – aumento dei livelli di magnesio nel sangue
  • neuropatia periferica
  • sensibilizzazione al nichel
  • disfunzione del sistema immunitario

Nota l’associazione tra il sintomo prurito e la patologia IRC e la sua variabile correlazione con la dialisi, devo ammettere che il trattamento è complesso, a volte difficile.

La difficoltà nasce anche dal fatto che, a tutt’oggi, i risultati di alcuni studi scientifici non sono stati successivamente validati e quindi confermati.

La terapia del prurito nei soggetti con insufficienza renale cronica

Il trattamento per questa tipologia di prurito può essere topico (locale), sistemico o fisico.

Terapia topica

Prima di tutto i soggetti con IRC dovrebbero applicare quotidianamente emollienti per eliminare il fenomeno della secchezza cutanea, una condizione che di per sé può essere causa di prurito, mentre per lenire specificatamente il sintomo possono essere applicate sulla pelle creme a base di capsaicina o ricche in acido γ-linoleico.

Un’altra opzione è l’applicazione del tacrolimus, normalmente usato nel trattamento della dermatite atopica, patologia dermatologica caratterizzata da intenso prurito.

Terapia sistemica

L’approccio sistemico, invece, distingue diverse categorie di farmaci:

  • agonisti e antagonisti dei recettori degli oppioidi
  • modulatori dell’infiammazione cutanea
  • immunomodulatori
  • anticonvulsivanti

In questi casi, la scelta terapeutica è condizionata dalle condizioni generali del paziente e dallo stato della patologia renale per evitare possibile effetti collaterali.

Per quanto riguarda gli agonisti dei recettori degli oppioidi, il farmaco principale è il Naltrexone mentre per gli antagonisti i principi impiegati sono la Nalfurafina e il Butorfanolo.

La Pentossifillina, invece, è un debole inibitore del TNF in grado di modulare negativamente l’infiammazione che somministrato alla dose di 600 mg, 3 volte alla settimana, immediatamente dopo la dialisi, è risultato efficace nel risolvere il prurito associato ad insufficienza renale cronica.

Tra i farmaci immunomodulatori la talidomide, farmaco noto per i suoi effetti teratogeni se somministrato in gravidanza, migliora il sintomo del prurito interagendo direttamente con i centri del prurito del sistema nervoso centrale.

Infine, l’anticonvulsivante Gabapentin, già noto per essere efficace nel trattamento del dolore dei soggetti con neuropatia è stato proposto anche per modulare il prurito dei pazineti con IRC.

Sottolineo che l’efficacia dei principi descritti è stato dimostrato in studi scientifici di modesta entità perché condotti su un numero esiguo di pazienti o perchè i risultati clinici sono stati valutati soggettivamente dai pazienti stessi i quali hanno riferito un miglioramento o risoluzione dell’entità del prurito.

Terapia fisica

Alla fine degli anni settanta venne dimostrato che la fototerapia con i raggi ultravioletti era in grado di migliorare il prurito associato alla insufficienza renale cronica. In particolare, è stato dimostrato che la lunghezza d’onda idonea era quella UVB a banda larga o a banda stretta. Al contrario, gli UVA sono inefficaci.

Gli UVB, pur essendo efficaci, sono motivo di dibattito nella comunità scientifica per il rischio d’indurre l’insorgenza di tumori cutanei in soggetti immunocompromessi come quelli con IRC.

Conclusioni

La qualità di vita del paziente con insufficienza renale cronica (IRC) è sempre fortemente compromessa a causa del prurito, generalmente intenso, tanto da condizionare negativamente e la vita sociale e il sonno dell’individuo.

Il suo trattamento è complesso e spesso anche non soddisfacente perché le cause responsabili del prurito sono complesse e perché mancano linee guida chiare e validate.

Attualmente solo il trapianto renale è in grado di risolvere definitivamente il problema del prurito. Fino ad allora è necessario identificare, isolare e trattare tutte quelle condizioni che possono concorrere ad esacerbarlo, quali la secchezza cutanea applicando emollienti sulla pelle, e considerare sempre le condizioni generali del paziente e lo stato della malattia di base nella prescrizione dei farmaci sistemici per ridurre al minimo il rischio di compromettere ulteriormente lo stato di salute della persona.

Pubblicità ingannevole: consumatore critico dove sei?

«Ti piace vincere facile?»

Ad alcuni sembrerebbe proprio di sì e mi riferisco a tutti coloro che della pubblicità fanno un uso scorretto, fuorviante e ingannevole per il consumatore, l’utente o il paziente

La pubblicità è l’anima del commercio e dovrebbe essere lo strumento fondamentale che, attraverso vari canali, dovrebbe informare e far conoscere un articolo, un prodotto, una metodica, una novità.

Eppure, da anni il marketing ha un solo obiettivo: disinformare o, peggio ancora, non informare affatto e indurre il consumatore ad una scelta emotiva facendo leva sull’immaginazione visiva e/o evocativa degli slogan.

Le tecniche di persuasione del marketing si sono sempre più affinate e perfezionate, tanto che la sua stimolazione seduttrice ci invita a «fare l’amore con il sapore» e non ci dice più perché quel determinato yogurt è migliore di un altro.

La pubblicità, stuzzicando la nostra immaginazione e staccando la spina della senso critico individuale, ci induce a scelte emozionali.

Un giorno, al liceo, la mia insegnante di Italiano ci disse: «Ragazzi, ricordatevi che quello che non potranno mai rubarvi è il senso critico!».

Oggi il senso critico lo abbiamo riposto in un cassetto e suggerisco di rispolverarlo se vogliamo invertire la rotta in questa realtà.

Sono stanco del «più bianco non si può» perché bianco non necessariamente implica che il capo è pulito.

Ovviamente, su questa giostra ci sono anche i cosmetici per l’igiene e l’estetica della persona, gli integratori alimentari e, a volte, anche i farmaci – mi riferisco soprattutto ai prodotti da banco.

Ecco quindi la crema che «attiva il tuo codice di vitalità cellulare» della pelle, il «trattamento luce contro i segni del tempo», quello con «le carote per la dolcezza» o la linea al melograno, «il frutto delle meraviglie, custode della bellezza».

Frasi che de-contestualizzate dalle singole pubblicità ci fanno sorridere perché prive di senso ma che costituiscono, invece, il messaggio dal quale siamo bombardati tutti i giorni.

E poi cosa significa «rende i capelli visibilmente più resistenti contro rotture e doppie punte»?

Mi prendete in giro? Rende «visibilmente» più resistente significa che è solo un effetto visivo e che quindi non li rinforza affatto?

Poi, basta aggiungere una bella donna, il suo corpo, il suo viso, i suoi lineamenti perfetti e sensuali ed il gioco è fatto: il consumatore critico è estinto.

Non tollero questa pubblicità e siccome gli esempi sarebbero tanti da non poterli sintetizzare in un post ho inaugurato in Dermaforum una sezione dedicata: Pubblicità ingannevole dove ognuno può postare gli spot ingannevoli per la salute della persona, quelli fuorvianti e quelli senza senso.

La pubblicità ingannevole è come il lupo della favola di Cappuccetto Rosso: si traveste e prende il posto della nonna, una persona familiare, per farci cadere nel tranello.

Ecco quindi che, oltre che sulla carta stampata, radio e TV la ritroviamo in rete, dove pullulano siti non certificati, non riconosciuti e non accreditati che dietro la veste grafica attraente invitano ad acquistare farmaci on-lineAttenzione, non cascateci!

Il farmaco richiede sempre una prescrizione specialistica dopo un’accurata visita medica. Evitate il fai da te!

Ci sono delle serpi che, pur di reclamizzare tali siti, si insinuano nei forum – lo hanno fatto anche sul nostro – e fanno leva sui bisogni, il disagio economico, la disperazione, il non sapere e anche la buona fede degli utenti.

Vigilerò sempre con attenzione per evitare queste infiltrazioni su Myskin.

Tutti i commenti ai vari post del blog che reclamizzano siti per la vendita on-line di farmaci o sponsorizzano medici perché «è il migliore» senza alcuna giustificazione saranno sistematicamente cancellati.

I lupi sono avvisati. Il senso critico è vigile!

Il piede diabetico: perché si manifesta e come prevenirlo. Guida pratica

I numeri sul diabete presentati durante il 71mo congresso dell’American Diabetes Association(ADA) svoltosi a San Diego sono quelli di un’epidemia mondiale: 350 milioni le persone affette da diabete che nel 2030 diventeranno 700 milioni.

Solo in Italia sono 5 milioni i diabetici e si ipotizza che altri 3 milioni ignorino di esserlo.

È un fenomeno che nelle prossime 24 ore vedrà 55 diabetici diventare ciechi, 120 in dialisi, 230 saranno sottoposti ad amputazione chirurgica di una gamba a causa delle complicanza vascolare e 810 perderanno la vita.

E’ un’epidemia silenziosa.

Silenziosa perché il diabete non duole, ti consuma e corrode dall’interno, interessando e degenerando progressivamente diversi organi e tessuti

Gli esperti sottolineano l’importanza della prevenzione ed è proprio questo l’argomento del post: la prevenzione dermatologica nel soggetto diabetico.

Il diabete, infatti, non è solo una patologia metabolica che comporta un aumento del valore della glicemia nel sangue ma è responsabile anche di danni degenerativi a livello cutaneo.

Se chiedessi qual è una complicanza cutanea del diabete, credo che tutti risponderebbero il piede diabetico, giustamente, ma se chiedessi ancora: perché si manifesta?

A questo punto sorgerebbero i primi dubbi e i più penserebbero solo ad un fenomeno intrinseco ed inevitabile della patologia.

I danni del diabete a livello cutaneo

L’iperglicemia dovuta al diabete è responsabile di una serie di alterazioni morfologico e funzionali a livello del derma della cute. Le alterazioni sono dovute ad un danno sia diretto, indotto dall’iperglicemia stessa, sia indiretto, di tipo degenerativo.

Nel primo caso, l’iperglicemia induce un’alterazione biochimica del collagene che, a seguito di una glicosilazione, diventa più resistente e l’organismo più difficilmente riesce a degradarlo e rimpiazzandolo con uno nuovo.

Da un punto di vista pratico si assiste ad un progressivo ispessimento e un indurimento del derma che diviene più compatto e rigido.

Oltre al danno delle fibre collagene si verificano anche anomalie strutturali e irreversibili a carico delle fibre elastiche, che tendono a scomparire. La conseguenza pratica è una perdita di elasticità da parte del derma.

Quindi il derma di un diabetico si presenta molto compatto, rigido ma poco elastico.

Infine, l’iperglicemia distrugge le fibre di ancoraggio che servono ad ancorare il derma all’epidermide, predisponendo di conseguenza l’epidermide all’insorgenza di facili abrasioni anche dopo una minima sollecitazione meccanica o fisica.

Pertanto, l’epidermide e il derma della cute di un soggetto diabetico si presentano come due differenti strutture anatomiche parallele tra loro, attigue ma fisicamente separate o non ben ancorate l’una all’altra.

E’ facile intuire che in questo modo nelle zone sottoposte a pressione e/o compressione, quale la superficie plantare, possono comparire dei veri e propri scollamenti sottocutanei e degli ispessimenti (tilomi) in superficie a livello epidermico.

In poche parole, la cute del soggetto diabetico ha una scarsa resistenza alle sollecitazioni fisiche e di conseguenza dove la cute è più sottile si formeranno dopo un minimo sfregamento delle abrasioni mentre dove è più spessa, come a livello plantare, degli ispessimenti callosi.

In profondità, però al di sotto delle ipercheratosi si formeranno al confine tra l’epidermide e il derma dei veri e propri scollamenti tra i due tessuti.

A tutto questo, bisogna aggiungere il danno cutaneo indiretto dovuto ad una degenerazione vascolare indotta sempre dall’iperglicemia e responsabile di un’alterazione dell’ossigenazione.

Dapprima il flusso sanguigno dei piccoli vasi e poi lentamente anche quello dei grandi vasi diminuisce a causa dell’ispessimento progressivo delle pareti vasali, responsabile di un ridotto lume vasale a livello dei tessuti in generale, cute compresa.

L’ostruzione di questi piccoli vasi (microangiopatia) oltre alla mancata ossigenazione cutanea induce una sofferenza a carico delle fibre nervose sensitive, della retina, della funzionalità renale, ecc.

Le turbe della sudorazione sono un iniziale segno cutaneo della neuropatia del diabetico e via via che peggiora la degenerazione dei vasi con interessamento di quelli di calibro progressivamente maggiore aumenta contemporaneamente la neuropatia con rilevanti alterazioni a carico della sensibilità e della percezione del dolore.

Il piede diabetico

Tutti i diabetici con arteriopatia e neuropatia degli arti inferiori sono a rischio di sviluppare il piede diabetico.

Inizialmente, la perdita della sensibilità profonda e la diminuzione del trofismo muscolare determinano un’alterazione della statica della persona che a sua volta favorisce la comparsa di duroni e calli nelle zone di appoggio e/o sfregamento a livello plantare.

Sotto i duroni, come accennato prima, si formano le bolle da attrito, le quali rompendosi si infettano e difficilmente regrediscono e guariscono spontaneamente a causa dell’alterata ossigenazione cutanea.

Successivamente si formano degli ascessi che erompono sulla superficie cutanea (mal perforante) e che in profondità si estendono fino a poter interessare le ossa, le articolazioni e i tendini.

Consigli pratici per evitare il piede diabetico

    • Ispezionare sistematicamente la propria pelle alla ricerca di piccole ferite o infezioni, prestando attenzione soprattutto negli spazi interdigitali e segnalando immediatamente al proprio dermatologo ogni manifestazione o lesione cutanea sospetta.In caso di lesioni sospette evitare assolutamente il «fai da te» per non complicare ulteriormente il quadro clinico e l’eventuale infezione iniziale.
    • Prestare attenzione ad evitare i traumatismi in corrispondenza degli arti inferiori.
    • Non deambulare a piedi nudi per evitare escoriazioni o sollecitazioni dirette sulla superficie plantare.
    • Non indossare scarpe in gomma, che possono far macerare la pelle, né quelle a punta o con i tacchi alti perché favoriscono sollecitazioni fisiche e sovraccarichi non fisiologici sulla pianta del piede.
    • Indossare calzature comode, larghe, confortevoli e prive di cuciture interne.
    • Usare plantari personalizzati di scarico per correggere eventuali errori di postura che potrebbero sovraccaricare punti localizzati del piede, favorendo la comparsa di tilomi.
    • Indossare calze senza cuciture interne specifiche per diabetici e non elasticizzate.
    • Lavarsi i piedi con acqua tiepida (30-35 gradi centigradi) perché una temperatura superiore può far macerare la pelle e predisporla alle infezioni.
    • Asciugare accuratamente il piede e gli spazi interdigitali, evitando di sfregare energicamente.
    • Applicare quotidianamente e sistematicamente creme o lozioni idratanti massaggiando delicatamente la pelle. L’uso sistematico di idratanti ha diversi vantaggi:
      • idrata la pelle e gli eventuali indurimenti (ipercheratosi)
      • facilita l’auto-ispezione della pelle durante il massaggio
      • stimola il microcircolo vascolare
  • Durante l’applicazione della crema idratante, prestare attenzione agli spazi interdigitali affinché non rimangano residui di crema non assorbita che potrebbero favorire la macerazione cutanea e di conseguenza predisporre alle infezioni micotiche e/o batteriche che, quando presenti, devono essere trattate tempestivamente.
  • Infine, se sono presenti delle rilevanti ipercheratosi plantari ridurle con una pietra pomice o limetta specifica evitando l’applicazione dei callifughi perché potrebbero essere troppo aggressivi asportando in toto l’epidermide ed esponendo il derma.

Il prurito: fisiologia, cause, manifestazioni, consigli pratici, trattamento. La guida completa


Il prurito è un’esperienza che tutti conosciamo e, se dovessimo descriverla probabilmente la definiremmo come sgradevole e che induce a grattarsi per cercare sollievo.

«Grattarsi è una delle gratificazioni più grandi che ci offra la natura, e quella più a portata di mano», scriveva Montaigne. «Ma purtroppo il pentimento le sta sempre alle calcagna.»

Un pentimento dovuto al fatto che il prurito peggiora dopo aver smesso di grattarsi; un fenomeno noto con il nome di ciclo prurito-grattamento.

Infatti, se da un lato il grattamento crea un sollievo momentaneo dall’altro induce un danno alla pelle, la quale s’infiamma, condizione che rinforza la sensazione del prurito.

S’instaura un circolo vizioso che favorisce dapprima la comparsa di lesioni da grattamento – caratterizzate da sanguinamento, escoriazione, ulcerazione e croste siero-ematiche – poi di un ispessimento della pelle (lichenificazione) più scuro (iperpigmentazione) o più chiaro (depigmentazione) rispetto a quello della cute sana, e da ultimo la formazione di cicatrici. Quando, infine, il prurito persiste per anni – e di conseguenza il grattamento – si formano dei noduli scuri di cute spessa.

Secondo alcuni scienziati, il prurito è la sensazione fisica più fastidiosa che si possa provare e a tutt’oggi la definizione del medico tedesco Samuel Hafenreffer, che risale al 1660, è la migliore: «il prurito è una sensazione sgradevole che provoca il desiderio di grattarsi».

Un desiderio irrefrenabile, compulsivo, sfrenato al quale difficilmente si riesce a resistere.

Eppure, la sua importanza in natura è notevole in quanto è un efficace sistema d’allarme che serve a rimuovere, grattandosi, possibili stimoli cutanei nocivi o pericolosi.

La neurobiologia ha dimostrato che il prurito è una sensazione indipendente dal dolore ed ha identificato i mediatori chimici, le fibre nervose e le aree cerebrali specifiche responsabili dell’induzione, della trasmissione, della percezione e del mantenimento di tale sensazione.

Tuttavia, sebbene molti dei meccanismi alla base del prurito sono stati scoperti, molti altri sono ancora un mistero: perché una piuma che ci sfiora la pelle a volte provoca prurito e altre solletico?

Probabilmente, le nostre sensazioni, in questo caso il prurito, sono il risultato finale di un’elaborazione cerebrale che combina gli stimoli sensoriali e le informazioni ottenute dalle esperienze precedenti.

Secondo questa nuova teoria sulla percezione, definita della stima più probabile, la sensazione prurito è data per il 20% dalle informazioni che giungono al cervello attraverso circuiti dedicati e per il restante 80% da quelle che sono depositate nelle regioni cerebrali che governano funzioni come la memoria.

Molti esperimenti di psicosomatica dimostrano, infatti, come sia sufficiente il pensiero a stimolare il prurito.

Questa nuova e avvincente teoria se da un lato complica ulteriormente la comprensione di tale sgradevole sensazione e di conseguenza il suo trattamento dall’altro spiega quelle provate dalle persone con gli arti fantasmi o dalle donne che hanno subito una mastectomia le quali ad esempio riferiscono una maggiore sensibilità in corrispondenza del capezzolo del seno asportato.

Pertanto, la nostra percezione sensoriale sarebbe una deduzione cerebrale, conseguente all’elaborazione complessa da parte del nostro cervello che combina ed elabora stimoli reali e ricordi passati.

Ma facciamo ora un passo indietro e torniamo alla neurobiologia per snocciolare i meccanismi biologici del prurito.

Il sistema neuronale del prurito è costituito da fibre nervose amieliniche (fibre C) che collegano la cute con il midollo spinale. A livello cutaneo, le loro terminazioni funzionano da antenne pronte a recepire quelle stimolazioni in grado di innescare e attivare il sistema. Oltre alle terminazioni appena descritte, sempre a livello cutaneo ci sarebbero dei recettori dedicati e specifici.

Pertanto, un determinato stimolo può attivare le fibre nervose localizzate nella cute oppure i recettori. In particolare, la stimolazione avviene attraverso la produzione o il rilascio da parte dei cheratinociti o delle mastcellule di mediatori (sostanze chimiche) quali: istamina, peptide intestinale vasoattivo (VIP), calcitonin gene-related peptide (CGRP), sostanza P, oppiodi ma anche numerose altre citochine quali una miriade di proteasi(triptasi, chimotripsina, callicreina,…), leucotriene B4, prostaglandine, ecc.

E’ sufficiente questa iniziale descrizione dell’orchestra biochimica delle varie sostanze implicate nella genesi del prurito per intuire fin da ora che gli antistaminici non sono e non possono essere l’unica terapia.

Attivate le fibre nervose, si genera un segnale neuronale che viene convogliato dapprima al midollo spinale e da qui, attraverso vie nervose preferenziali, al cervello, dove all’interno di specifiche aree nasce il prurito.

Quindi ricapitolando e semplificando, lo stimolo attiva le fibre nervose amieliniche cutanee oppure i recettori del prurito, si produce una stimolazione nervosa che viaggia dapprima verso il midollo spinale e da qui al cervello, dove tali informazioni sensoriali vengono elaborate e codificate come prurito.

Lo stimolo in grado di innescare tutto questo può essere esogeno, esterno all’organismo, oppure endogeno, interno, e nella realtà non necessariamente ci deve essere solo e sempre un percorso a senso unico così come è stato descritto affinché si generi il prurito.

In altre parole, può accadere che uno stimolo pur non attivando le fibre nervose e/o ricettori a livello cutaneo sia in grado di attivare direttamente le vie del midollo spinale oppure in altri casi i centri nervosi localizzati nel cervello.

Quindi, ognuna delle tappe del sistema nervoso presentate può essere direttamente stimolata e a cascata attivare un segnale al quale il cervello dà la forma e il colore del prurito.

Proprio per questo motivo, da un punto di vista puramente didattico si distingue:

  • Prurito pruricettivo: origina direttamente a livello cutaneo a causa di una dermatite e dovuto alla stimolazione delle fibre nervose amieliniche.
  • Prurito neuropatico: causato da un danno a carico del sistema nervoso afferente al midollo spinale. Tipico il prurito che si manifesta dopo l’Herpes Zoster nella stessa zona in cui c’è stata l’infezione e conseguente ad un interessamento diretto dei nervi.
  • Prurito neurogenico: provocato da uno stimolo che agisce direttamente sui centri del sistema nervoso centrale. E’ il caso dei tumori cerebrali.
  • Prurito psicologico: si manifesta nei soggetti con malattie psichiatriche tipo le allucinazioni o altre forme di psicosi.

Quelle presentate non sono però le uniche cause di prurito le quali, invece, sono molteplici e solo conoscendole è possibile attivare quei percorsi diagnostici mirati per identificarle, fondamentali per la gestione terapeutica del prurito stesso.

Le cause del prurito

Il prurito è un sintomo molto comune negli anziani e la sua gravità può essere tale da incidere negativamente sulla qualità della vita specie quando interferisce e ostacola il sonno della persona.

Negli anziani la causa più frequente di prurito è la secchezza cutanea (xerosi). La secchezza cutanea che fisiologicamente aumenta con l’età si associa anche ad atrofia cutanea, ad una diminuita produzione di sebo da parte delle ghiandole sebacee e ad un’alterazione della funzione barriera della cute che per questi motivi diviene maggiormente sensibile e suscettibile a molteplici stimoli chimici e fisici in grado di produrre prurito.

La xerosi però è solo un’altra delle possibili cause che schematicamente è possibile classificare e distinguere in:

  • malattie cutanee: dermatiti irritative o allergiche da contatto, dermatite atopica, lichen, pemfigoide bolloso, psoriasi, orticaria,mastocitosi, ecc.
  • malattie sistemiche: patologie renali, colestasi, patologie del sistema endocrino e/o della tiroide…
  • parassitosi: scabbia, pidocchi…
  • tumori: linfomi, mielomi, sindromi mielodisplastiche, policitemia vera, malattia di Hodgkin…
  • malattie infettive: AIDS, Herpes Zoster, impetigine, micosi…
  • malattie psichiatriche: psicosi, ipocondria, schizofrenia, sindromi ossessivo-compulsivo…
  • cause psicologiche: fattori emozionali, ansia, stress…
  • cause fisiche: prurito acquagenico o indotto dall’esposizione al sole…
  • farmaci/droghe: indotta da aspirina, ACE inibitori, morfina, oppiodi…

Chiarite e catalogate le varie e possibili cause nella pratica clinica solo attivando dei percorsi logistici è possibile identificare quella responsabile del prurito.

Personalmente, suggerisco di prestare attenzione se il prurito è associato a manifestazioni cutanee o se al contrario non è presente alcun interessamento della pelle oppure se sono presenti segni di grattamento.

E’ sufficiente stabilire a quale delle tre condizioni precedenti si associa il prurito per iniziare a focalizzare l’attenzione su un gruppo più ristretto di possibili cause.

Prima ancora, però, ascoltare la storia del paziente che meglio di chiunque altro conosce il suo prurito e non mancherà di descriverlo in tutte le sue sfumature che presento di seguito.

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Semeiotica del prurito nelle diverse patologie

Per quanto sgradevole possa essere, il prurito ha delle sfumature precise che, simili a quelle cromatiche che consentono di apprezzare meglio l’opera dell’artista, indirizzano l’attenzione del dermatologo sulla possibile causa.

Generalizzato, localizzato, unilaterale, bilaterale, continuo e persistente, recidivante, serale, simile al formicolio, pizzicore, bruciore, pungente sono solo alcune delle caratteristiche del prurito, spesso specifiche per ogni malattia che lo scatena.

Malattie internistiche

Nei soggetti con insufficienza renale e in dialisi, il prurito inizia dopo 2-3 mesi dall’inizio della dialisi. Può essere generalizzato o localizzato, più spesso al dorso o al volto. Spesso si associa a xerosi e/o prurigo. Gli attacchi di prurito sono sempre severi, pungenti e possono scatenarsi sia durante sia dopo la dialisi.

Anche nella colestasi il prurito può essere generalizzato o localizzato ma alle estremità ed è tipicamente scatenato dallo sfregamento sulla pelle degli indumenti stretti. E’ controindicato il grattamento perché esse stesso è uno stimolo meccanico e come tale peggiora ulteriormente il prurito.

Nella policitemia vera il prurito di tipo pungente è generalizzato e le cause che lo scatenano sono il contatto con l’acqua o gli sbalzi di temperatura. Può associarsi a prurigo.

Infine, tipico il prurito della malattia di Hodgkin che sulla cute si manifesta in corrispondenza delle stazioni linfonodali (ascelle, collo, torace, inguine…)

Prurito indotto dai farmaci

In questi casi, il prurito insorge anche dopo mesi dall’inizio dell’assunzione del farmaco e spesso, proprio per questo motivo, è difficile stabile il nesso di causalità. Il sospetto nasce quando il prurito è di tipo pungente e localizzato nelle aree cutanee sottoposte a pressione o in corrispondenza degli elastici degli indumenti. Controindicato grattarsi.

Malattie neurologiche

Se il prurito è unilaterale o bilaterale ma localizzato in corrispondenza del dermatomero C6 è probabile che si tratti del prurito brachioradiale che può essere indotto e scatenato dai raggi UV e che si può associare a prurigo.

Si tratta di un prurito neuropatico quasi doloroso, oppure simile al pizzicore, al bruciore, al formicolio o alla puntura di un insetto.

Un prurito sempre di tipo pungente o simile al formicolio ma localizzato su e giù alle estremità del corpo è tipico dei soggetti con le allucinazioni tattili che riferiscono la sensazione di qualcosa che si muove sotto pelle.

E’ comune il loro atteggiamento a collezionare frammenti vari a dimostrazione dei possibili parassiti che hanno invaso la loro pelle e che puntualmente fanno visionare al dermatologo.

Anche nei soggetti con disturbi del comportamento il prurito ha delle caratteristiche simili ma in questi casi si associa molto spesso alla depressione.

Infine, anche comuni fattori emozionali come l’ansia o la fatica o lo stress possono indurre e scatenare un prurito severo e pungente.

Malattie dermatologiche

Molte delle malattie cutanee si associano a prurito. Nella dermatite atopica ad esempio può essere molto severo, generalizzato o localizzato in corrispondenza delle lesioni della malattia ed essere presente sia durante la fase acuta sia durante quella di remissione della malattia.

Il prurito è così intenso che peggiora con il grattamento e spesso i pazienti lo descrivono simile al bruciore.

Infine, tipico della dermatite atopica è l’allochinesi che consiste nella comparsa del prurito in assenza di uno stimolo scatenante.

Al contrario nella psoriasi il prurito è presente ed è localizzato solo ed esclusivamente sulle placche della malattia.

Infine, nell’orticaria e nella mastocitosi si associa ad edema e ad eritema e spesso è indotto da stimoli meccanici motivo per cui anche in questo caso è controindicato grattarsi.

Terapia del prurito

A tutt’oggi mancano delle linee guida universalmente riconosciute e l’approccio deve essere sempre individuale. In generale, non esiste una panacea e spesso dopo aver necessariamente individuato la causa o le cause scatenanti è necessario un trattamento combinato che preveda l’impiego simultaneo di più di uno dei principi esaminati di seguito.

In generale, però ci sono alcune indicazioni che consiglio di adottare per gestire il prurito:

  • applicare sistematicamente sulla pelle idratanti o creme barriere soprattuto dopo il bagno o la doccia;
  • tagliare le unghie per evitare di grattarsi;
  • indossare indumenti leggeri evitando quelli stretti ed elasticizzati;
  • evitare gli sbalzi di temperatura usando un deumidificatore in inverno e un climatizzatore d’estate;
  • usare acqua tendenzialmente fredda o tiepida per la doccia o il bagno evitando quella eccessivamente calda;
  • evitare di usare detergenti con pH elevato o quelli contenenti soluzioni alcoliche.

Specificatamente, invece, per quanto riguarda il trattamento è necessario sapere che:

Idratanti, emollienti, creme barriere

Utili se presente la xerosi come spesso si verifica negli anziani. Migliorano il prurito in quanto la loro applicazione ripristina la funzione barriera della cute, riducono la perdita trans-epidermica di acqua ed evitando la penetrazione trans-cutanea di agenti chimici o fisici irritanti.

Sono indicati soprattutto quei topici con pH acido perché sono in grado di inibire l’azione di specifiche proteasi quali le triptasi delle mastcellule, mediatori noti di attivare il circuito neuronale del prurito.

Corticosteroidi topici

Questi farmaci non hanno un azione direttamente antipruriginosa e, sebbene largamente usati in caso di prurito, non sono indicati. La loro applicazione è consigliata solo se presente una dermatite per contrastare il processo infiammatorio. Attenzione ad evitare l’applicazione cronica che potrebbe favorire l’insorgenza di atrofia (assottigliamento) cutaneo e di conseguenza un peggioramento del prurito.

Immunomodulatori topici

Consigliato l’uso di tacrolimus o pimecrolimus in caso di dermatite atopica, dermatite seborroica, lichen sclero-atrofico, prurito anogenitale o prurigo nodulare in quanto inibiscono l’azione di specifici recettori localizzate a livello delle fibre nervose implicate nel circuito neuronale del prurito.

Mentolo

Presente in diversi topici in concentrazione variabile 1-3% svolge la sua azione antipruriginosa rinfrescando la pelle.

Capsaicina

Indicata soprattutto in caso di prurito cronico, localizzato ma di tipo neuropatico comune negli anziani e simile a quello che si manifesta dopo l’Herpes Zoster. Inizialmente, immediatamente dopo la sua applicazione è assolutamente normale nella sede di applicazione una sensazione simile al bruciore che svanisce subito dopo.

Anestetici locali

Il polidocanolo è il principio più noto e presente in diversi topici, spesso in concentrazione pari al 5% e associato all’urea 3%. E’ indicato nel prurito dei soggetti dializzati o in caso di dermatite atopica, dermatite da contatto o psoriasi.

Acido salicilico topico

Riduce il prurito soprattutto nel lichen simplex cronico. La sua azione è dovuta all’inibizione di alcune ciclo-ossigenasi quali i prostanoidi.

Cannabinoidi topici

La dermatite atopica, il lichen simplex, la prurigo nodulare e le malattie renali sono le patologie renali dove il prurito migliora dopo l’applicazione di creme contenenti tali principi.

Antistaminici

Utili solo in caso di orticaria. Scarsa la loro azione nei confronti del prurito presente in molte altre patologie. A volte, è preferibile assumere quelli di prima generazione perché avendo un’azione sedativa maggiore migliorano quei casi di prurito notturno.

Antidepressivi

Il loro meccanismo d’azione non è chiaramente noto ma si sono dimostrati efficaci nel prurito psicologico degli anziani, in caso di leucemia, linfomi, colestasi e patologie renali.

Oppiodi

Indicati in diversi forme di prurito la loro somministrazione deve essere monitorata da un medico per i possibili effetti collaterali specie negli anziani.

Neurolettici

Anche in questo caso il loro meccanismo d’azione non è noto ma sono efficaci in caso di prurito neuropatico come quello brachioradiale, il post-erpetico o nella notalgia parestesia.

Fototerapia

Da circa 30 anni gli UVA, gli UVB e gli UVB a banda stretta rappresentano il trattamento fisico di varie dermatosi caratterizzate da prurito o del prurito degli anziani, specie quando è presente il rischio di reazioni avverse a farmaci.

Conclusioni

Se hai resistito e sei giunto fino a questo punto, magari grattandoti mentre leggevi il post, avrai sicuramente compreso che il prurito è un universo complesso ma sappi che nei casi veramente estremi è possibile recitare la formula magica della strega Etrusca Cruscòn la quale, poverina, anche lei soffriva di prurito a causa di una dermatite che si manifestava quando dormiva su un materasso privo delle penne di Spiumaccione.

Grattala, grattala senza posa
la pelle aspra, rasposa e squamosa
bollosa, crostosa, macchiata e irritata
simile ad un foglio di carta vetrata.
Se duole, se pulsa, se pizzica e prude
come un impacco di ortiche crude
se brucia come l’abbraccio urticante
di un’affettuosa medusa gigante,
non c’è rimedio, non c’è altro da fare:
devi grattare, grattare, grattare.

Filtri solari: stesso SPF ma diversi. Quanto applicarne, reazioni allergiche, impatto ecologico

Arriva l’estate e in internet pullulano i consigli sui filtri solari per proteggere la pelle dalle scottature, uno dei fattori di rischio per l’insorgenza dei tumori cutanei. E’ stato dimostrato che se un soggetto si scotta per ben 5 volte nell’arco di un decennio aumenta di 3 volte il rischio di sviluppare un melanoma.

Spesso si sente dire che il sole è «malato» ed è colpa sua se i tumori della pelle sono in aumento e se ci scottiamo quando andiamo al mare. In realtà, il sole non ha nessuna malattia e siamo noi quelli che dovremmo assumerci le nostre responsabilità quando ci esponiamo in maniera incosciente. Eppure, la pelle deve stare al sole anche senza protezione per poter sintetizzare la vitamina D importante per le ossa. Attenzione, l’esposizione senza protezione deve essere rapportata al tipo di pelle individuale. Ad esempio, un soggetto di carnagione chiara può farlo per 15 minuti al giorno, dalle due alle tre volte alla settimana, ovviamente non durante le ore centrali della giornata.

Al contrario, uno con la pelle scura per sintetizzare lo stesso quantitativo di vitamina D del primo deve esporsi per un tempo maggiore perché la sua carnagione rappresenta uno «sbarramento» naturale all’irraggiamento del sole.

Fatta questa eccezione, il consiglio è:

  • applicare il filtro solare su tutte le aree del corpo, specie quelle scoperte quali il viso, le orecchie e il dorso delle mani;
  • prestare attenzione, durante l’applicazione del solare, al naso, alle spalle, al dorso dei piedi e alla nuca che più frequentemente si scottano rispetto alle altre parti del corpo;
  • applicare la crema solare in modo uniforme sulla pelle senza strofinare;
  • riapplicarla dopo il bagno o dopo aver sudato.

A parità di fattore di protezione, i filtri solari sono uguali?

No, non lo sono affatto!

Non mi riferisco alle differenze cosmetiche, ovvero alla presenza/assenza di profumazione o alla formulazione in crema piuttosto che in latte, spray o altro. Specificatamente, mi riferisco solo ed esclusivamente al fattore di protezione che come sappiamo è definito da SPF (sun protection factor).

SPF è quel numero (es.15, 30, 50, 50+) riportato sulla confezione che definisce il grado di protezione ed è calcolato sperimentalmente con un metodo universalmente riconosciuto e adottato dalle maggiori aziende di solari. La dicitura SPF ha permesso di fare chiarezza perché in confronto la frase «testato nel Sahara» non significa assolutamente nulla, non fornisce un dato sul grado di protezione del prodotto, anche se commercialmente il messaggio è molto forte perché gioca sull’immaginazione della persona indotta a pensare che se va bene nel deserto figurarsi in riviera!

Tuttavia nel 2008 la Commissione Europa ha stabilito delle nuove direttive, riguardanti le norme di etichettatura dei solari, alle quali non tutte le aziende a tutt’oggi si sono adeguate:

  • schermo totale o protezione totale sono definizioni che non possono essere più usati, in quanto nessun solare garantisce una protezione pari al 100% dai raggi UV;
  • le nuove categorie di fotoprotezione, che devono essere riportate sulle confezioni, sono: bassa, media, alta e molto alta. La protezione bassa include il vecchio SPF 6 e 10, quella media il fattore di protezione 15, 20 e 25, quella alta il 30 e 50 e infine quella molto alta il 50+;
  • infine, le etichette devono riportare le istruzioni e le avvertenze per esporsi correttamente al sole.

Quindi le nuove direttive racchiudono già nella stessa categoria, ad esempio quella alta, solari con fattore di protezione differente il 30 e il 50 ma la domanda iniziale era se, invece, tutti quelli con uguale fattore di protezione, ad esempio 50+, sono uguali tra loro.

Non lo sono per il semplice motivo che da nessuna parte è riportato per quanto tempo riescono a garantire nel tempo quella specifica protezione solare a parità di condizioni: pelle bagnata, sudata, ecc.

Molti solari con protezione molto alta si inattivano immediatamente, o quasi, perché la loro composizione chimica è poco o nulla in equilibrio e gli ingredienti tendono a degradarsi, separarsi tra loro facendo perdere l’efficacia del solare stesso.

Se volessi estremizzare e semplificare il concetto esposto, immaginate due auto la cui velocità di punta è la stessa: 150 Km/h, con la differenza che la prima non appena la raggiunge fonde il motore mentre l’altra continua a viaggiare a quella velocità con il minimo sforzo.

Ed è questo uno dei motivi per cui il dermatologo invita, durante l’esposizione al sole, a rinnovare l’applicazione del solare almeno ogni due ore per cercare di mantenere nel tempo lo stesso grado di protezione.

Quindi prestate attenzione alla prescrizione del solare del vostro dermatologo, il quale in base al vostro tipo di pelle, alla sua sensibilità, alla sua reattività, al tipo di patologia cutanea eventualmente presente e al tipo di allergia da contatto non mancherà di indicarvi il solare migliore e individualmente performante.

Quale la dose di solare da applicare sulla pelle?

Pochi sanno che un filtro solare per poter effettivamente garantire un determinato fattore di protezione deve essere applicato sulla pelle in quantità pari a 2mg/cm2.

E’ stato dimostrato che applicandone di meno, ad esempio 0,5-1,5 mg/cm2 si riduce il grado di protezione tanto che un solare vedrebbe ridurre il suo SPF 50 ad un valore compreso tra 5 e 20.

Ed è qui che tutte le aziende non aiutano il consumatore ad applicare la dose giusta di solare, fornendo solo indicazioni assolutamente empiriche: «un dito di prodotto», «una falange»…

Si potrebbe investire nella realizzazione di confezioni dotate di dispositivi che consentano l’erogazione di un quantitativo stabilito e riproducibile di solare.

E poi, facendo alcuni calcoli, è possibile dimostrare che per applicare sulla pelle di un adulto 2mg/cm2 di solare sono necessari circa 35 ml di prodotto e se lo riapplichiamo ogni due ore ne occorre una confezione di 200 ml ogni 2/3 giorni.

Pertanto, perché realizzare confezioni di solare con un contenuto molto più basso?

Quale l’impatto ambientale dei filtri solari?

Il 25% della crema solare applicata sulla pelle si disperde in mare e se pensate che solo nelle regioni tropicali, ogni anno, vengono consumate 16-20.000 tonnellate di filtro solare, provate a immaginare al quantitativo che si scioglie nell’acqua.

Una recente scoperta italiana, ha dimostrato che le creme solari disciolte nell’acqua del mare sono responsabili dello sbiancamento dei coralli.

Tali cosmetici disciolti rompono la simbiosi vitale tra il corallo e la zooxanthella, un’alga unicellulare che fornisce al tessuto corallino nutrimento attraverso la fotosintesi, regalandogli anche il caratteristico colore brillante.

L’inquinamento marino dovuto alle creme solari scatenerebbe infezioni virali nella zooxanthella, uccidendola. Alla morte dell’alga unicellulare seguirebbe quella del corallo che si manifesta con lo sbiancamento del tessuto corallino.

Sperimentalmente, è stato dimostrato che il danno biologico è indipendente dalla concentrazione di crema solare presente nel mare.

Inoltre, sebbene ancora non siano note le conseguenze biologiche, sono stati documentati fenomeni di accumulo dei composti normalmente presenti nei solari negli organismi marini, in particolar modo nel plancton.

La conseguenza? In alcuni ecoparchi marini del Messico e in altre località marine ad alta affluenza turistica è vietato l’uso dei solari!

I filtri solari possono causare allergia?

Si, certamente!

Così come tutti i cosmetici anche i solari possono favorire la comparsa di reazioni allergiche.

E’, tuttavia, un fenomeno poco frequente ma possibile e documentato in letteratura medica.

Il benzofenone, l’acido para-aminoazobenzene, il biossido di titanio sono le sostanze maggiormente implicate nell’indurre tale tipo di reazione.

In particolare, la dermatite da contatto si manifesta esponendosi al sole dopo aver applicato sulla pelle il filtro per proteggerla. Quindi, più propriamente si tratta di fotodermatite allergica, indotta e scatenata dai raggi del sole che reagiscono con i composti dei filtri solari.

Esiste il filtro solare ideale?

Non ancora.

A mio avviso, le caratteristiche ideali di un solare dovrebbero essere:

  • fattore di protezione foto-stabile nel tempo per 3-4 ore, il tempo medio di esposizione al sole di una persona;
  • un’adeguata protezione nei confronti degli UVA, UVB e degli infrarossi;
  • composizione minimalista per ridurre il rischio d’insorgenza di reazioni allergiche;
  • confezione da 300-500 ml per un’adeguata durata durante le vacanze;
  • costo accessibile;
  • confezioni dotate di dosatore per erogare il quantitativo corretto di prodotto da applicare sulla pelle
  • cosmesi accettabile per evitare che la crema unga. Il filtro dovrebbe avere una composizione fondente con il profilo della pelle ma allo stesso tempo dovrebbe essere facilmente rimovibile con la doccia o lavandosi, magari utilizzando un detergente idoneo;
  • confezione riciclabile;
  • impatto ecologico zero.

Pitiriasi Versicolor, la guida completa: clinica, diagnosi, terapia e recidive

«Spaghetti e polpette» non è il titolo di un film western ma è stata la descrizione di un morfologo quando per la prima volta ha osservato al microscopio ottico il Pitirosporum, un fungo che si può presentare di forma filamentosa, simile appunto agli spaghetti, oppure tozza e rotondeggiante come le polpette, e proprio per questo descritto come dimorfo.

Il fungo quando si presenta nella forma filamentosa viene chiamato Pitirisporum ovale ed è un commensale che vive quotidianamente a livello del cuoio capelluto e sulla pelle mentre è riconosciuto come Pitirosporum orbicolare quando assume la forma rotondeggiante che, invece, rappresenta la forma patogena responsabile della Pitiriasi Versicolor.

Oggi, il termine Malassezia Furfur ha sostituito quello di Pitirosporum che nel corso del post continuerò ad usare solo per un motivo didattico per spiegare la patogenesi della malattia.

La Pitiriasi Versicor è una patologia molto comune e nelle zone tropicali può interessare fino al 40% della popolazione. Tipica del soggetto giovane adulto, saltuariamente è possibile riscontrarla anche nei bambini e negli anziani.

Si caratterizza per la comparsa di chiazze di dimensioni variabili da pochi mm a diversi cm, di forma ovalare, ben definite e di color camoscio o bruno che spesso possono confluire formando delle macchie di maggiori dimensioni.

Assolutamente asintomatiche, si localizzano elettivamente al tronco, nuca, collo e radice degli arti e con il passare del tempo tendono a cambiare colore diventando più chiare rispetto al normale colore della pelle.

Il termine versicolor che deriva dal latino «versicolorèm» descrive appunto il cambiamento cromatico delle macchie.

Il colore chiaro è maggiormente apprezzabile durante o dopo l’estate quando la pelle sana più facilmente si abbronza e si accentua il contrasto con quelle interessate dal fungo, motivo per cui, volgarmente, sono chiamate «macchie di sole» o «funghi di mare».

Il contrasto tra la pelle sana e quella interessata dalla Pitiriasi Versicolor è la conseguenza della produzione da parte del fungo di acidi grassi dicarbossilici, in particolare dell’acido azelaico, in grado di interferire e interrompere la sintesi di melanina.

Quindi, ricapitolando, un nostro commensale, il Pitirosporum ovale, diventa patogeno trasformandosi nel Pitirosprum orbicolare, colonizza la cute determinando l’insorgenza di macchie brune che, successivamente, evolvono e si presentano più chiare rispetto al normale colore della pelle a causa dell’interruzione della sintesi di melanina,.

Ovviamente, il Pitirosporum ovale e quello orbicolare non sono altro che le due manifestazioni morfologiche differenti, filamentosa e tozza, che la Malassezia furfur può assumere modificando radicalmente il suo comportamento biologico da commensale della nostra pelle a patogeno.

Perché accade tutto ciò?

L’ambiente caldo-umido, l’eccessiva sudorazione e l’aumento della seborrea, associato anche ad alla predisposizione individuale, rappresentano le condizioni ideali che favoriscono il passaggio dalla forma filamentosa a quella tozza e quindi patogena della Malassezia furfur e di conseguenza la comparsa della malattia.

La Pitiriasi Versicolor pur essendo causata da un fungo ha un basso o nullo potere infettante infatti, solo raramente, all’interno di uno stesso nucleo familiare si riscontrano più soggetti che contemporaneamente presentano la stessa patologia.

Manifestazioni cliniche della Pitiriasi Versicolor

Come accennato l’aspetto classico sono le chiazze brune seguite da quelle leucodermiche (bianche).

Pitiriasi Versicolor: chiazze ipopigmentate
Pitiriasi Versicolor: chiazze ipopigmentate

Inizialmente, le chiazze presentano una fine desquamazione in superficie, una desquamazione che i greci descrivevano con il termine «pityron», simile alla crusca, da cui il nome della patologia Pitiriasi.

La superficie delle macchie color camoscio appare sgualcita, simile alla carta da sigaretta e, nonostante la diagnosi dermatologica sia molto semplice, il segno del truciolo elimina ogni dubbio diagnostico.

In pratica è sufficiente grattare delicatamente la superficie delle macchie con una lama o un abbassalingua per notare la presenza di una desquamazione minuta, farinosa come se un piccolo truciolo si staccasse dalla pelle.

Inoltre queste macchie non presentano mai una risoluzione centrale, ovvero un’area più chiara al centro così come è accade in una micosi oppure nella Pitiriasi Rosea di Gibert.

Pitiriasi Versicolor: chiazze color camoscio confluenti insieme a fomare una macchia più grande
Pitiriasi Versicolor: chiazze color camoscio confluenti insieme a fomare una macchia più grande

Accanto alla forma classica, appena descritta, esiste quella eritematosa, caratterizzata dalla presenza di macchie rosse e quella atrofica.

La forma eritematosa si manifesta generalmente nei soggetti con le difese immunitarie compromesse o in caso di ipersensibilità (eccessiva reazione immunitaria) al fungo mentre quella atrofica sarebbe la conseguenza dell’applicazione impropria di cortisone localmente sulle singole macchie.

Pitiriasi Versicolor: chiazze eritematose
Pitiriasi Versicolor: chiazze eritematose

Diagnosi della Pitiriasi Versicolor

Le manifestazioni cliniche sono sempre molto tipiche per la diagnosi che può essere formulata anche grazie alla lampada di Wood che evidenzia chiaramente, a livello delle macchie color camoscio, una fluorescenza giallo-verdastra indicativa della Pitiriasi Versicolor.

Nei pochi casi dubbi, oltre all’esame con la lampada di Wood, si può eseguire l’esame microscopico diretto con il metodo dello scotch test.

Si prelevano delle squame dalle lesioni con un nastro adesivo trasparente che successivamente viene adeso su un vetrino e trattato con idrossido di potassio al 10-30% per far macerare le squame e/o colorato con blu Parker per osservare la presenza degli spaghetti e delle polpette, ovvero i filamenti e le spore della Malassezia.

Terapia della Pitiriasi Versicolor

La terapia di elezione si basa sull’uso di antimicotici topici da applicare sulla pelle e/o sistemici, la scelta dipende dall’estensione della malattia se localizzata o diffusa.

Per quanto riguarda i topici prediligo le formulazioni in mousse o le soluzioni, contenenti chetoconazolo in concentrazione variabile 1-2% oppure ciclopiroxolamina al 1% o tioconazoloallo 0,5-1%.

Le formulazioni in mousse o le soluzioni, a differenza di quelle in crema, permettono di trattare ampie superfici come il dorso, di favorire un maggiore assorbimento del principio attivo e inoltre, possono essere applicati anche a livello della nuca e soprattutto del cuoio capelluto, serbatoio della Malassezia, senza sporcare i capelli.

In generale, si consiglia di usare queste formulazioni 1-2 volte al giorno per un mese circa. Di solito, prima di ogni nuova riapplicazione degli antimicotici si consiglia di lavarsi per rimuovere eventuali residui del trattamento precedente, tuttavia le loro formulazioni sono tali da non ungere eccessivamente e quindi la detersione può essere tranquillamente eseguita anche solo al bisogno.

Oltre alle soluzioni e alle mousse, per un trattamento combinato, è consigliato l’uso di detergenti antimicotici sia per il corpo sia per il lavaggio dei capelli da utilizzare sistematicamente 2-3 volte a settimana per un mese.

In questi casi, è necessario insaponarsi per bene dal cuoio capelluto compreso fino all’inguine, lasciare il detergente in posa qualche minuto e poi sciacquare.

Generalmente, i topici e i detergenti antimicotici, oltre ad uno dei principi attivi indicati, possono contenere anche zinco piritione, un altro agente antimicotico e antibatterico, lattoferrina che interferisce con il metabolismo della Malassezia e basse concentrazioni di acido salicilico per favorire la desquamazione delle chiazze color camoscio.


La maggior parte di tali prodotti, oltre ad essere efficaci, hanno una cosmesi che non irrita la pelle e una formulazione priva di nichel e parabeni.

Infine, nelle forme diffuse si indica l’assunzione per 7-14 giorni consecutivi di itraconazolo o fluconazolo, il cui dosaggio è rapportato all’età e al peso del soggetto.

Al termine della terapia è assolutamente normale la presenza oppure eventualmente la persistenza delle macchie bianche, più chiare rispetto al colore della pelle, perché la terapia eradica il fungo dalla pelle ma non stimola la melanogenesi, momentaneamente interrotta in modo reversibile dal fungo. .

Lentamente e spontaneamente, dopo la guarigione la melanogenesi riprenderà la sintesi della melanina, una sintesi che può essere accelerata utilizzando dei repigmentanti da applicare sulle chiazze oppure esponendosi correttamente al sole.

Infine, un problema frequente sono le recidive per lo più stagionali della Pitiriasi Versicolor che se particolarmente frequenti è possibile contrastare indicando l’uso di detergente e antimicotici topici in mousse o spray da usare almeno una settimana ogni 4-6 settimane per tutto l’anno.

Melanoma: cosa fare per prevenirlo e diagnosticarlo precocemente

«I soldi non comprano la vita».

Sono state le ultime parole rivolte al figlio.

Quando gli fu diagnosticato il melanoma, rifiutò di asportarlo per rispettare i precetti della sua religione che predicava la conservazione e l’integrità del corpo.

Nato in Giamaica nel 1945, Bob Marley morì a soli 36 anni.

Oggi, in Italia, si stima che ogni anno sono circa 7.000 le persone alle quali viene diagnosticato un melanoma e 1.500 quelli che perdono la vita.

Il 16 maggio si svolgerà a livello europeo l’Euromelanoma Day, una campagna finalizzata all’informazione dei cittadini per la prevenzione dei tumori della pelle, in particolare del melanoma.

Il termine prevenzione non presuppone un «non fare», come erroneamente si potrebbe immaginare, pur di evitare il melanoma, ovvero un atteggiamento passivo di fronte al problema ma al contrario si basa sull’azione e sull’agire, comportamenti che devono definire un preciso stile di vita.

Uno stile di vita – quello della prevenzione al melanoma – che presuppone la conoscenza, la sensibilizzazione e l’educazione al problema.

La conoscenza del melanoma

Prima di tutto è necessario conoscere i fattori di rischio del melanoma che da un punto di vista puramente didattico possono essere suddivisi in fattori di rischio endogeni ed esogeni.

In particolare, i fattori di rischio endogeni descrivono una serie di condizioni o situazioni che riguardano specificatamente il soggetto:

  • presenza in famiglia di uno o più casi di melanoma – nel 10% dei casi può essere presente una familiarità;
  • pregressa asportazione di un melanoma – un soggetto che ha già asportato un melanoma ha un rischio maggiore rispetto alla popolazione generale di svilupparne un secondo;
  • presenza di numerosi nevi – maggiore è il numero di nevi, specie se superiore a 50, maggiore è il rischio di sviluppare un melanoma;
  • storia di ripetute scottature solari – soprattutto quella in età pediatrica o durante l’adolescenza;
  • presenza di nevi congeniti – il rischio è maggiore per i nevi congeniti giganti, quelli che alla nascita hanno dimensioni superiori a 20 cm;
  • fototipo I e II – soggetti con la carnagione, i capelli e gli occhi chiari.

Invece, per quanto riguarda i fattori esogeni si riferiscono alle esposizioni ai raggi UV sia naturali sia artificiali.

I raggi UVA e UVB sono dannosi per la pelle perché possono causare scottature solari ma soprattutto indurre fenomeni di cancerogenesi e quindi mutazioni specifiche a carico del DNA delle cellule cutanee e di conseguenza l’insorgenza dei tumori della pelle.

 

In base alla tipo di cellula cutanea interessata dalla cancerogenesi insorge un differente tipo di tumore della pelle.

Pertanto, si svilupperà un basalioma oppure uno spinalioma o un melanoma se le mutazioni genetiche hanno interessato rispettivamente la cellula basale, quella cheratinocitaria dello strato spinoso o, infine, il melanocita.

 

Sempre a proposito degli UV, è stato dimostrato che i soggetti di età compresa tra i 15 e i 29 anni esponendosi ai raggi dei lettini abbronzanti, anche una sola volta al mese, aumentano del 75% il rischio di sviluppare un melanoma.

 

Il melanoma è il più pericoloso tra tutti i tumori della pelle

La pericolosità del melanoma non è direttamente proporzionale alle sue dimensioni, alla sua estensione sulla pelle, al suo colore scuro ma, invece, al suo spessore, alla sua infiltrazione all’interno della cute.

Il melanoma, infiltrandosi in profondità nel derma della cute può interessare i vasi linfatici e di conseguenza alcune delle sue cellule possono migrare e spostarsi nei linfonodi e successivamente in altri organi quali i polmoni, il cervello, il fegato, sviluppando le metastasi.

 

La sensibilizzazione al problema melanoma

Solo se conosciamo il melanoma saremo sensibilizzati a proteggere la nostra pelle e ad eseguire autocontrolli periodici dei nevi.

Nel primo caso, possiamo applicare sulla pelle filtri solari con idoneo fattore di protezione in base al fototipo individuale, avendo l’accortezza di applicare almeno 2 grammi di prodotto per ogni cm2 di cute.

Inoltre, il filtro solare deve essere rigorosamente applicato su tutta la pelle e non solo sui nevi perché il melanoma oltre che a svilupparsi da un nevo che inizia a cambiare può nascere direttamente sulla pelle dove prima non c’era niente, nessuna macchia, nessun nevo!

Una novità per proteggere la nostra pelle, oltre ai filtri solari, è data dai tessuti a protezione solare le cui fibre contengono intrinsecamente un fattore di protezione. Si tratta di speciali tessuti che garantiscono un protezione elevata.

Paesi come l’Australia o l’Inghilterra investono molto nell’educazione con campagne informative e pubblicitarie rivolte direttamente ai bambini per spiegare loro l’importanza di proteggere la pelle dall’esposizione al sole oppure ai giovani per quanto riguarda i rischi dell’abbronzatura artificiale.

 

L’educazione a controllare i nevi

Infine, l’ultimo passo per un’adeguata prevenzione è l’educazione a controllare sistematicamente i propri nevi.

Per fare ciò è necessario distinguere due diversi e complementari aspetti: l’autoesame dei nevi e l’epiluminescenza o dermatoscopia (l’esame specialistico dermatologico).

L’autocontrollo deve essere eseguito adottando la regola dell’ABCDE.

  • A – asimmetria: se una metà della lesione non è perfettamente sovrapponibile all’altra è irregolare.
  • B – bordi: attenzione ai bordi irregolari e frastagliati
  • C – colore: segnala i nei di colore nero, quelli con più di un colore, quelli che cambiano da scuro a chiaro oppure quelli che presentano un arrossamento o un alone chiaro alla periferia.
  • D – dimensioni: insospettisciti quando un neo aumenta rapidamente di dimensioni rispetto agli altri.
  • E – evoluzione: non sottovalutare quel neo che modifica il suo aspetto iniziale quando in un punto diventa in rilievo, quando presenta una desquamazione della superficie, quando sanguina spontaneamente e/o diventa pruriginoso.

 

La regola ABCDE è uno strumento pratico ma è necessario sottolineare chiaramente che non è sufficiente per l’autodiagnosi del melanoma in quanto la sua accuratezza diagnostica è pari solo al 50-60%.

In altre parole, applicata per descrivere 100 melanomi ne identificherebbe solo 50-60 di essi!

A questo punto, quando avere il sospetto di un melanoma?

Prestate molta attenzione al nevo che cambia forma, colore, dimensioni e a quel «neo» che compare improvvisamente dove prima non c’era nulla. Inoltre, prestate attenzione a quel «neo» che appare diverso, per il suo colore o forma, da tutti gli altri (il segno del brutto anatroccolo).

Sono solo dei suggerimenti e non regole assolute, indicazioni per tenere sempre alta l’attenzione individuale all’autocontrollo.

Attualmente, esistono anche delle applicazioni per iphone tipo Skin Prevention, che possono essere un valido ausilio individuale per l’autocontrollo oggettivo dei propri nei e che non nascono con la presunzione di garantire l’autodiagnosi del melanoma, che invece è di competenza del dermatologo.

Il dermatologo, infatti, è l’unico professionista che ha la conoscenza teorica e pratica per utilizzare la metodica dell’epiluminescenza (dermatoscopia), una metodica che consente l’osservazione in vivo e non invasivo delle strutture di ogni nevo, quelle poste al di sotto della superficie cutanea non apprezzabili né ad occhio nudo né con la regola ABCDE.

Generalmente, si esegue l’epiluminescenza digitale, una telecamera HD (high definition) collegata ad un PC è posta a diretto contatto del nevo che, ingrandito da 20 fino a 200 volte viene visualizzato a colori a monitor per apprezzare in dettaglio tutti i particolari, anche quello più piccolo che può essere significativo per una diagnosi precoce.

Tutte le immagini dei nei vengono poi gestite da un software per il follow-up nel tempo dei nevi che sono stati «mappati» sulla pelle del paziente.

In conclusione, la diagnosi precoce del melanoma è possibile solo se c’è un’attiva collaborazione tra il paziente e il dermatologo.

Solo in questo modo è possibile immaginare che la prevenzione possa veramente diventare uno stile di vita quotidiano e non solo un evento confinato all’Euromelaona Day.

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