Il PASI (Psoriasis Area Severity Index) è un indice che il Dermatologo utilizza quando visita il paziente con Psoriasi per valutare la tipologia delle manifestazioni e l’estensione della malattia sul corpo.
E’ un indice che descrive l’entità della Psoriasi considerando diversi aspetti della lesione quali:
eritema
infiltrazione
desquamazione
L’eritema si riferisce al rossore delle macchie, l’infiltrazione valuta con la palpazione se superficiali oppure se sono spesse e infine la desquamzione considera l’entità della desquamazione e delel croste biancatre.
Per ognuno di tali parametri il dermatologo esprime una percentuale la cui valutazione finale consente al medico di esprimere la valutazione complessiva sul PASI del paziente.
Noi dermatologi di Myskin abbiamo deciso di utilizzare tale indice invitando tutti gli utenti che accedono alla piattaforma www.myskin.it e sono affetti da Psoriasi si fare un’autovalutazione della gravità della loro malattia.
Abbiamo realizzato sulla piattaforma di Myskin più di 20 blog post dedicati alla Psoriasi, più di 15 conversazioni sulla patologia nella sezione dedicata al Dermaforum con 500 Thread e e più di 600 interazioni social.Le risposte al questionario PASI di Myskin sono state raccolte ed elaborate con la stesura finale di un report che descrive in dettaglio e per le diverse aree del corpo (testa, braccia, tronco e gambe) la gravità della Psoriasi secondo la loro personale valutazione.
Oggi, la cura contro il Melanoma è sempre più efficace ed ha contribuito a dare una svolta decisiva nella sopravvivenza del paziente.
Se prima del 2011 le chemioterapie avevano un beneficio limitato con una sopravvivenza in media di 9 mesi, le nuove cure, che si basano sull’immunoterapia, sono in grado di garantire ai pazienti una remissione maggiore, in media 18 mesi, e in alcuni casi completa.
Tutto ciò è possibile grazie ai nuovi approcci terapeutici dell’immunoterapia che agiscono su specifici bersagli nella lotta contro il Melanoma avanzato (non resecabile o metastatico).
L’immuniterapia, a differenza della chemioterapia, è in grado di potenziare il sistema immunitario del paziente nella lotta contro il Melanoma, un tumore che ha uno dei più alti tassi di mutazione.
I farmaci immunterapici, attualmente utilizzati da soli o in combinazione per la cura del Melanoma avanzato (non resecabile o metastatico) sono: Ipilimumab (Yervoy®), Nivolumab (Opdivo®) e Pembrolizumab (Keytruda®).
Quando usati in combinazione si usano: Ipilimumab e Nivolumab oppure Ipilimumab e Pembrolizumab.
Sono tutti anticorpi monoclonali indicati per il trattamento di pazienti con Melanoma avanzato (non resecabile o metastatico).
L’anticorpo monoclonale è una sostanza prodotta in laboratorio da un solo tipo di cellula (clone cellulare) del sistema immunitario.
In laboratorio è possibile produrre molteplici anticorpi monoclonali identici tra loro.
Gli anticorpi monoclonali sono in grado di interagire in maniera specifica con sostanze estranee o pericolose per l’organismo, chiamate antigeni, neutralizzandole.
Schema interazione dei farmaci di Immunoterapia per il Melanoma e CTLA-4 e PD-1 . Fonte: Wikimedia Commons
E’ proprio grazie alla loro azione di interagire con specifici bersagli che vengono utilizzati nella cura contro i tumori in genere, Melanoma compreso.
In campo terapeutico, gli anticorpi monoclonali utilizzati terminano tutti con un suffisso che varia in base al tipo di anticorpo:
-umab se è di origine umana
-zumab se la sua struttura contiene il 5-10% di aminoacidi di origine murina
-ximab quando la sua struttura è chimerica in quanto presenta circa il 34% di aminoacidi di origine murina e la restante di orine umana
-mab se è di origine murina
Che cos’è e come agisce Ipilimumab (Yervoy®)?
Ipilimumab è un anticorpo monoclonale anti-CTLA-4 (IgG1κ) interamente umano, prodotto in cellule ovariche di criceto cinese mediante la tecnologia del DNA ricombinante.
Può essere usato in monoterapia negli adulti e nei bambini a partire dai 12 anni di età o in associazione a Nivolumab.
Il CTLA-4 è un recettore transmembrana dei Linfociti T citotossici che in seguito all’interazione con specifici ligandi è in grado di attivare una risposta inibitoria della funzione dei linfociti T citotossici, identificati anche come CD8+.
I linfociti T citotossici sono linfociti del nostro sistema immunitario in grado di eliminare le cellule infette e quelle tumorali.
Se questa loro azione viene inibita, come descritta sopra, il sistema immunitario della persona non è in grado di svolgere l’azione di distruzione nei confronti delle cellule infette e soprattutto delle tumorali quali appunto quelle del Melanoma.
L’Ipilimumab interagendo e saturando i recettori CTLA-4 non li rende più disponibili per i ligandi accennati e di conseguenza i linfociti T citotossici non vengono inibiti.
I linfociti T citotossici quindi sono in grado di proliferare e di infiltrare le cellule tumorali di Melanoma in modo tale da distruggerle.
Come si somministra Ipilimumab (Yervoy®)?
Ipilimumab deve essere somministrato per via endovenosa in periodo di 90 minuti.
Può essere somministrato non diluito o diluito in una soluzione iniettabile di sodio cloruro 9 mg/ml (0,9%) oppure in una soluzione iniettabile di glucosio 50 mg/ml (5%) a concentrazioni comprese tra 1 e 4 mg/ml. Ipilimumab non deve essere somministrato per via endovenosa rapida o con iniezione in bolo.
Qual è il dosaggio di Ipilimumab (Yervoy®)?
Inizialmente è prevista la fase di induzione che deve essere completata dai paziente in base alla tollerabilità e indipendentemente dalla comparsa di nuove metastasi o dalla crescita di quelle già esistenti e che consiste nella somministrazione di 4 dosi, una ogni 3 settimana. Ogni dose deve essere somministrata per via endovenosa in un periodo di 90 minuti.
Terminata la fase di induzione è possibile valutare la risposta tumorale del Melanoma al trattamento.
Prima di iniziare la terapia con Ipilimumab è necessario valutare la funzionalità tiroidea ed epatica, indagini che devono essere ripetute prima della dose successiva della terapia di induzione.
La dose raccomandata di Ipilimumab è di 3 mg per chilogrammo di peso corporeo.
Qualora, il paziente fosse trattato con Ipilimumab e Nivolumab in combinazione riceve riceve una dose di entrambi gli immunoterapici ogni 3 settimane per un totale di 4 dosi, per poi essere trattato con Nivolumab in monoterapia.
Quali sono gli effetti collaterali di Ipilimumab (Yervoy®)?
Gli effetti collaterali possono essere diversi e a carico di diversi organi. In base alla gravità e all’entità degli effetti collaterali, l’oncologo valuterà se interrompere in permanentemente il trattamento con Ipilimumab oppure sospendere solo una dose.
Gli effetti collaterali possibili sono:
Gastrointestinali > dolore addominale, diarrea severa o cambiamento significativo della frequenza delle evacuazioni, presenza di sangue nelle feci, emorragia gastrointestinale, perforazione gastrointestinale
Epatici > aumento dei valori delle transaminasi (GOT e GPT) e della bilirubina totale
Cutanei > sindrome di Stevens-Johnson (Necrolisi tossica epidrmica), prurito severo e diffuso
Neurologici > neuropatia sensitiva o motoria
Endocrini > ipofisite e tiroidite
vari > nefrite, polmonite, pancreatite, miocardite non infettiva
Che cos’è e come agisce Nivolumab (Opdivo®)?
Nivolumab è un anticorpo monoclonale di origine umana antiPD-1, prodotto in cellule di ovaio di criceto cinese mediante tecnologia del DNA ricombinante, in grado di inibire il checkpoint immunitario PD-1 (programmed cell death-1).
I checkpoint immunitari sono delle molecole che modulano e regolano l’attività del sistema immunitario.
PD-1 è uno di questi checkpoint immunitario, utilizzato dalla cellule tumorali per eludere il sistema immunitario della persona dall’attacco ed evitare di essere attaccate. Le cellule tumorali, quali quelle del Melanoma, utilizzano tale via del sistema PD-1 per bloccare le risposta del sistema immunitario della persona.
Nivolumab bloccando il PD-1 evita che il sistema immunitario venga inibito nella sua azione di distruzione delle cellule tumorali.
Come si somministra Nivolumab (Opdivo®)?
Nivolumab è somministrato per via endovenosa con una somministrazione lenta della durata di 60 minuti. La soluzione per infusione deve essere somministrata attraverso un filtro in linea, sterile, apirogeno, a basso legame proteico con dimensione dei pori da 0,2 a 1,2 μm.
Il trattamento deve essere continuato finché si osserva un beneficio clinico o fino a quando il trattamento non sia più tollerato dal paziente.
Qual è il dosaggio di Nivolumab (Opdivo®)?
La dose raccomandata di Nivolumab è di 3 mg per chilogrammo di peso corporeo, somministrata per via endovenosa in 60 minuti ogni 2 settimane.
Se inveve Nivolumab è somministrato in associazione ad Ipilimumab la dose raccomandata è 1 mg per chilogrammo di peso corporeo di Nivolumab somministrato per infusione endovenosa in un periodo di 60 minuti ogni 3 settimane per le prime 4 dosi in associazione a 3 mg per chilogrammo di peso corporeo di Ipilimumab somministrato per via endovenosa in un periodo di 90 minuti. A seguire la seconda fase nella quale sono somministrati 3 mg per chilogrammo di peso corporeo di Nivolumab per infusione endovenosa in un periodo di 60 minuti ogni 2 settimane.
Il trattamento immunoterapico, sia in monoterapia sia in associazione ad Ipilimumab, deve essere continuato finché si osserva un beneficio clinico o fino a quando il trattamento non sia più tollerato dal paziente.
Non è raccomandato l’aumento graduale o la riduzione della dose.
Chiare linee guida definiscono quando il trattamento deve essere interrotto in maniera permanente oppure deve esserci la sospensione delle dosi.
Quali sono gli effetti collaterali di Nivolumab (Opdivo®)?
Le reazioni avverse possono essere:
Polmonite
Colite e diarrea
Epatite > aumento delle transaminasi (GOT e GPT) e della bilirubina totale
Nefrite e disfunzione renale > aumento della creatinina
Reazioni avverse cutanee > rash, Sindrome di Stevens-Johnson (SJS)
Varie > miocardite
Che cos’è e come agisce Pembrolizumab (Keytruda®)?
E’ un anticorpo monoclonale che ha un meccanismo d’azione del tutto simile a quello di Nivolumab.
Pembrolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato (isotipo IgG4/kappa con un’alterazione stabilizzante di sequenza nella regione Fc) anti PD-1 (programmed cell death-1) prodotto in cellule ovariche di criceto cinese con la tecnologia del DNA ricombinante.
Come si somministra Pembrolizumab (Keytruda®) ?
Deve essere somministrato mediante infusione endovenosa (somministrazione goccia a goccia), attraverso una cannula (tubisino) introdotto nella vena del braccio o del dorso della mano.
Ogni infuzione dura circa 30 minuti e viene ripetuta ogni 3 settimane.
Qual è il dosaggio di Pembrolizumab (Keytruda®)?
La dose di Pembrolizumab è di 2 mg per chilogrammo di peso corporeo.
Il trattamemto deve essere eseguito fino a quando non viene documentata la progressione del Melanoma o fino alla comparsa di tossicità inaccettabile.
Durante il trattamento con Pembrolizumab sono state osservate risposte atipiche caratterizzate da un aumento transitorio ed iniziale delle dimensioni del tumore o la comparsa di nuove piccole lesioni metastatiche nei primi mesi e riduzione successiva della massa tumorale.
Per questo motivo nei pazienti clinicamente stabili che presentano evidenza iniziale di progressione della malattia si raccomanda la prosecuzione del trattamento fino alla conferma della progressione.
Quali sono gli effetti collaterali di Pembrolizumab (Keytruda®)?
Quando un paziente esegue l’immunoterapia con Pembrolizumab gli effetti avversi che possono verificarsi sono:
Sintomi simil influenzali
Polmonite
Nausea, vomito, diarrea e colite
Nefrite
Rash cutaneo, Prurito diffuso, Vitiligine, Secchezza della pelle
Endocrinopatie > Ipofisite, Diabete di Tipo 1
Epatite > aumento delle transaminasi (GOT, GPT) e della bilirubina totale
Anche in questo caso somno state definite linee guida per il medico per valutare quando interrompere permanentemente il trattamento o sospendere la somministrazione delle dosi.
Quali sono gli esami del sangue che il paziente con Melanoma deve eseguire?
Se da un lato sono stati fatti notevoli progressi per il trattamento del Melanoma, ci sono ancora delle limitazioni in quanto non è possibile sapere a priori quali saranno i pazienti con Melanoma avanzato che risponderanno in maniera ottimale alle nuove cure.
Allo steso modo non sono stati fatti, negli ultimi 10 anni, sostanziali progressi circa i parametri del sangue del paziente con Melanoma da monitorare.
Valore LDH alto e Melanoma
Nel 2009, la lattato deidrogenasi (LDH) ha dimostrato di essere un predittore indipendente di sopravvivenza nel Melanoma, motivo per cui è stata aggiunta alle linee guida AJCC.
Se LDH è alto può avere un valore prognostico ha un significato prognostico, negativo anche se devono essere sempre valutati ed esclusi possibili falsi positivi, ovvero quelle condizioni che potrebbero aver favorito un aumento dell’enzima ma non dovute a cause tumorali.
LDH è un utile marker per monitorare il decorso del Melanoma in modo tale che il dermatologo e l’oncologo possano valutare le più opportune decisioni terapeutiche.
Valore Proteina S100 alto e Melanoma
E’ un marker per monitorare il Melanoma e lo stadio clinico della malattia.
S100 ha dimostrato di essere predittivo della risposta al trattamento con l’anticorpo monoclonale anti-CTLA-4.
Così come l’LDH, S100 sembra essere un indicatore dello stadio della malattia in quei pazienti che a causa della fase avanzata di Melanoma potrebbero non rispondere all’immoterapia.
Valore Proteina C reattiva (PCR) alto e Melanoma
La proteina C-reattiva (CRP) è stata descritta come fattore prognostico negativo per il trattamento con l’anticorpo monoclonale anti-CTLA-4.
A differenza di LDH e S100, la PCR è direttamente correlata alla risposta immunitaria.
In generale è un marker di infiammazione e non è specifico per il Melanoma, motivo per cui suo aumento può essere dovuti a molteplici altre cause o infezioni in atto.
Nuovi Biomarcatori
La ricerca sta cercando di valutare quali potrebbero essere altri parametri da valutare per monitorare il paziente con Melanoma e soprattutto per capire quale potrebbe essere la sua possibile risposta al trattamento di Immunterapia.
In alcuni studi ad esempio è stata valutata con l’immunoistochimica l’espressione di PD-L1 da parte del Melanoma, anche se saranno necesarie ulteriori ricerche per standardizzare la valutazione dell’espressione di PD-L1 affinché diventi un biomarker attendibile.
In altri studi sono stati presi in esami e potrebbero essere rilevanti i seguneti valori del sangue:
numero dei Neutrofili
numero di Linfociti
Rapporto tra i Neutrofili e i Linfociti
Numero di Eosinofili
Numero dei Monociti
TGFβ
Conclusioni
Se da un lato i dermatologi sono sempre più in grado di formulare una diagnosi precoce del Melanoma, dall’altro la ricerca sta facendo notevoli passi avanti nella cura con l’immunoterapia per la cura delle persone con Melanoma avanzato non operabile o con metastasi.
Sono persone che grazie a questo nuovo approccio mirato sul Melanoma continuo a vivere la loro vita contando su una remissione della malattia che si preannuncia sempre più importante.
Persone, alcune delle quali hanno condiviso la loro storia con noi di Myskin ma anche con voi. Sul nostro canale Youtube puoi trovare le storie vere di persone vere con Melanoma in #myskinstories
Per anni, gli oncologi hanno consigliato ai pazienti sottoposti a Radioterapia di evitare l’applicazione di creme, lozioni o emollienti topici immediatamente prima del trattamento con radiazioni.
Gli oncologi temevano che l’applicazione di creme potesse aumentare il rischio dermatite dovuta proprio alle radiazioni del trattamento oppure far peggiorare l’intensità della tossicità cutanea della radiazione.
Un nuovo studio pubblicato online su JAMA Oncology ha sfatato tale raccomandazione.
Gli autori dello studio riferiscono che: “più del 90% dei medici intervistati non consigliano ai loro pazienti, che stanno eseguendo la Radioterapia, di applicare creme sulla pelle trattata, e che l’88% dei pazienti non ha mai ricevuto indicazioni mediche su eventuali creme da applicare prima o dopo la Radioterapia”
“Abbiamo scoperto che la quantità di crema che i pazienti applicano tipicamente sulla pelle non è sufficiente a causare alcuna interferenza con la dose del trattamento radioterapico” ha detto Baumann, uno degli autori dello studio citato.
Il consiglio di non usare creme subito prima della Radioterapia nasceva dalla preoccupazione che la presenza di eventuali particelle metalliche della crema potesse interferire con i raggi X e peggio ancora aumentare la loro tossicità a livello cutaneo con conseguenti ustioni e scottature più marcate.
E’ noto infatti che alcune creme possono contenere tracce di elementi metallici all’interno della loro composizione.
Siccome però la maggior parte dei pazienti applica circa 2 millimetri o anche meno di spessore di creme o lozioni sulla pelle, tale modalità non comporta un aumento della tossicità cutanea dovuta ai raggi X.
Proprio per questo motivo i pazienti possono applicare regolarmente le loro creme, in quantità moderata, prima di esporsi ai raggi X della Radioterapia.
Lo studio pubblicato su Jama Oncology ha una valenza molto importante tanto da sovvertire le raccomandazioni dei medici che, oggi, possono tranquillizzare i propri pazienti che l’applicazioni di creme prima della Radioterapia non va ad aumentarne la tossictà cutanea.
Anzi, grazie ai risultati dello studio inizieranno a raccomandare l’uso di creme prima della seduta di Radioterapia per migliorare l’esperienza del trattamento radioterapico.
L’idea dello studio è arrivata a Baumann, il quale un giorno notò che uno dei suoi pazienti che presentava una significativa dermatite da radiazioni stava cercando di rimuovere la crema che aveva applicato in precedenza durante la giornata prima di sottoporsi al trattamento.
La donna provava a rimuovere la crema dalla pelle, visibilimente arrossata e dolente, seguendo le indicazioni che i medici le avevano sempre dato: evitare di applicare qualsiasi crema sulla pelle prima della Radioterapia.
Fu proprio in quel momento che Bauman intuì che tale situazione era motivo di ulteriore stress che si aggiungeva a quello della seduta di Radioterapia e a quello dell’eritema dolente presente.
La raccomandazione di evitare l’uso di creme, lozioni o emollienti (in generale di topici sulla pelle) prima della Radioterapia è molto vecchia. Oggi, con i nuovi acceleratori di lineari che erogano dosi minori di raggi X e sono in grado di agire in maniera più selettiva e mirata sul bersaglio non ha più motivo di esistere.
Era giunto, secondo Baumann, il momento di rivedere tale raccomandazione.
Baumann e il suo team hanno condotto sondaggi online anonimi su 133 pazienti e 108 medici su OncoLink, un sito web educativo senza scopo di lucro che fornisce informazioni sul cancro gratuite.
I pazienti hanno risposto ad un sondaggio di 24 domande e riguardante la cura della pelle e la Radioterapia. L’età media dei pazienti era di 60 anni (range 18-86 anni) e 117 (87,9%) erano donne.
I medici, invece. hanno risposto ad un sondaggio differente di 18 domande.
Le risposte ai sondaggi sono state raccolte tra il 15 gennaio 2015 e il 15 marzo 2017.
111 pazienti (83,4%) hanno dichiarato di aver ricevuto indicazioni di evitare l’applicazione di creme sulla pelle prima di eseguire la Radioterapia.
96 dei 105 medici (91,4%) hanno riferito di aver sempre scongliato ai pazineti di applicare creme prima della Radioterapia.
Gli autori dello studio hanno condotto anche una sperimentazione per valutare in che modo l’applicazione di una crema sulla pelle, in quantità superiore ai 3 mm, incideva sulla dose erogata durante il trattamento di Radioterapia.
Hanno riscontrato che la crema applicata sulla pelle non condizionava l’incidenza del fascio di radiazioni e che non c’erano differenze tra la dose registrata a livello della superficie cutanea e della stessa alla profondità di 2 cm.
L’applicazione della crema prima della Radioterapia aumentava solo la dose di superficie dal 2% al 5%.
Tali risultati hanno portato gli autori dello studio ad affermare che, grazie alle nuove metodiche utilizzata in Radioterapia, l’applicazione di creme sulla pelle prima del trattamento con i raggi X non aumenta o peggiora il rischio per il paziente di incorrere in eritemi o arrossamenti.
I pazienti che eseguono la Radioterapia applicano le creme perché hanno alcuni effetti collaterali sulla pelle:
pelle secca
arrossamento
dermatite
scottature
ustioni
Motivo per cui usano le creme per lenire tali disagi.
Conclusioni
Da oggi è possibile applicare prima, ma anche dopo, la Radioterapia senza che ci sia il rischio di un aumento della tossicità cutanea dovita alle radiazioni e per lenire gli effetti del trattamento con radiazioni.
Rachel Harris, Heidi Probst, Charlotte Beardmore, Sarah James, Claire Dumbleton, Amanda Bolderston, Sara Faithfull, Mary Wells, Elizabeth Southgate. Radiography February 2012 Vol. 18, Issue 1, Pages 21–27
I Melanociti sono cellule della cute che derivano dalla cresta neurale da dove migrano nell’epidermide embrionale dopo circa 50 giorni.
Il proto-oncogene c-kit, che codifca per un recettore di membrana con attività Tyr-k intriseca, induce la proliferazione, la differenziazione e migrazione dei melanoblasti che poi diveneranno Melanociti; le cellule che producono le melanine che caratterizzano il colore della pelle di ognuno, quello degli occhi e dei capelli.
Se si verifica una mutazione a livello del proto-oncogene c-kit si verifica il Piebaldismo una condizione in cui i melanobalsti non sopravvivono per differenziarsi a liovello cutaneo in melanociti.
I Melanociti si trovano a livello dello strato basale dell’Epidermide ma anche a livello delle Leptomeningi, delle ghiandole surrenali, della matrice del capello, delle ovaie e dell’orecchio interno.
Rappresentazione schematica del Melanocita a livello dello strato basale dell’epidermide con attorno i Cheratinociti
A livello dello strato basale dell’Epidermide si ritrova in media un Melanocita ogni 36 Cheratinociti, tale rapporto viene chiamata Unità Melanica-Epidermica.
I Melanociti a livello della testa e degli avambracci sono presenti in un quantità pari a circa 2000 Melanociti/mm² mentre al resto della superficie del corpo con una densità pari a 1000 Melanociti/mm².
Che forma hanno i Melanociti?
I Melanociti hanno una forma poliedrica, stellare con prolungamenti citoplasmatici che si proiettano dallo strabo basale fin verso lo strato Malpighiano dell’Epidermide.
Hanno un citoplasma chiaro dove sono presenti i melanosomi e l’apparato di Golgi con un citoscheletro caratterizzato dalla presenza della Vimentina e l’assenza dei tonofilamenti.
Il nucleo, invece, è di forma ovale e intensamente basofilo che quando osservato con il microscopio ottico presente anche un alone perinucleare otticamente vuoto che altro non è che un artefatto.
Per osservare i Melanociti al microscopio si possono usare le seguenti colorazioni e/metodiche:
impregnazione argentica
DOPA reazione che sfrutta la proprietà del substrato melanocitario di attivarsi a contatto con la sostanza DOPA producendo la deposizione di pigmento melanico
Anticorpi anti S-100
Anticorpi anti HMB45.
I Melanociti non hanno i Desmosomi quale apparato di giunzione cellulare.
Melanocita: rappresentazione schematica della sua morfologia
Cosa sonoi Melanosoni?
I melanosomi sono degli organelli citoplasmatici dedicati alla melanogenesi (sintesi di melanina) le cui dimensioni sono determinate geneticamente.
I melanosomi possono essere suddivisi in:
Eu-melanosomi che producono l’eu-melanina (melanina scura)
Feo-melanosomi che produconi la feo-melanina (melanina chiara)
Rappresentazione dei diversi fototipi dovuti alle melanine chiare (Feomelanine) e a quelle scure (Eumelanine)
I melanosomi con all’interno il pigmento di melanina vengono ceduti dai Melanociti ai Cheratinociti attreverso i dendriti mediante un processo di fagocitosi che porta all’inglobamento di una parte del citoplasma del melanosoma.
Il processo di fagocitosi si svolge attraverso le seguentio fasi:
fusione e rottura delle membrane plasmatiche del melanosoma e del Cheratinocita
esocitosi di un singolo melanosoma
endocitosi da parte del Cheratinocita del melanosoma
protrusione del dendrite melanocitario
A livello dei Cheratonociti i melanosomi sono presenti come organello o aggregati in più unità, circondati da membrana oppure isolati.
Successivamente i melanosomi vengono degradati dai lisosomi dei Cheratinociti.
Cosa è la melanina?
La melanina è un polimero insolubile ad alto peso molecolare sempre legata a proteine strutturali.
Qual è la struttura e le proprietà della melanina?
Esistono 3 diversi gruppi di pigmento melanico
Eu-melanine: pigmenti azotati, neri o bruni insolubili in tutti i solventi che originano dalla polimerizzazione ossidativa di intermedi a struttura indolica
Feo-melanine: pigmenti contenenti azoto e zolfo, rosso-bruno e che sono solubili in alcali. Sono costituite da unità benzo-tiaziniche/tiazoliche
Tricromi: sono una varietà di feo-melanine a basso peso molecolare. Hanno una struttura benzotiazinica, un alto contenuto di Zolfo (11%) ed è un cromoforo pH indipendente. Alcuni autori discutono se quest’ultimi siano realmente presenti, da quali cellule sono prodotte.
Esistono poi delle varianti minori di melanine:
Ossimelanine: pigmenti rossi-gialli a basso contenuto di Zolfo che sono solubili in alcali. Somno semplici varianti strutturali delle Feo-melanine conseguenti alla loro degradazione dopo essere state sintetizzate.
Melanine miste: sono pigmenti che hanno caratteristiche miste
Melanine extra cutanee: sono le neuromelanine di colore nero-marrone. Sono pigmenti granulari intracellulari della Substantia Nigra.
A cosa serve la melanina?
Assorbe e riflette i raggi UV, protegge la pelle dai radicali liberi dell’Ossigeno formati dai raggi UV, in grado di provocare danni di tipo lipo-perossidico alle membrane che potrebbero essere letali per le cellule. Infine, svolge azione di scattering favorendo la dispersione e diffusione dei raggi UV.
A cosa sono dovute le differenze etniche?
Il colore diverso della pelle nelle diverse popolazioni è dovuto alle differenti dimensioni e distribuzione dei melanosomi. Ad esempio la popolazione di colore africana ha melanosomi grandi e isolati mentre i caucasici li hannopiccoli e riuniti.
La melanogenesi: come avviene la sintesi della melanina?
La sintesi della melanina seguen diversi passaggi biochimici che portano alla produzione delle melanine chiare o di quelle scure.
Lo schema di seguito rappresenta schematicamente i diversi passaggi
Scopri i dettagli del processo della sintesi della melanina
Il processo di melanogenesi vede il coinvolgimento di diversi enzimi quali:
Tirosinasi: glicoproteina contenente Rame che catalizza le prime reazioni che portano alla formazione del Dopachinone
TRP (Tirosinasi related protein): che esiste di tipo 1 e tipo 2. Il tipo 1 la DHICA ossidasi ed è una proteina di membrana neutralizzante i radicali liberi e i loro prodotti che si formano nel corso del processo di melanogenesi. Il tipo 2, chiamata anche Dopacromo tautomerasi catalizza la reazione che da Dopacromo porta alla formazione del DHICA
Catalasi: inibiscono la sintesi di melanine eliminando perossidi di ossigeno
Perossidasi: favoriscono la sintesi di melanine producendo dei perossidi. E’ molto probabile che sfrutti i prossidi formati dai raggi UV per ossidare la melanina.
Che cosa stimola la sintesi di melanina?
Sono gli UV e in particolar modo i raggi UVB che stimolano la moltiplicazione dei melanociti.
Quando la pelle è esposta ai raggi UV aumenta la produzione di radicali liberi dell’ossigeno che determina l’attivazione e la sintesi dei sistemi anti-ossidativi delle cellule favorendo un aumento di disponibilità di Dopachinone e di conseguenza della melanina secondo lo schema sopra riportato.
Tale processo vede coinvolti anche i Cheratinociti, lo squalene del sebo delle ghiandole sebacee e gli ormoni quali:
MSHα che stimola la proliferazione dei Melanociti e la sintesi della melanina. MSHα (melanocytes stimulating hormone) deriva dal precursore Propriomelanocortina dalla cui frammentazione derivano l’ACTH e la β-Lipoproteina. Dall’ACTH deriva MSHα
Estrogeni che svolgono un’azione di iper-pigmentazione
Idro-cortisone che diminuisce la sintesi della melanina
In che modo si verifica l’abbronzatura?
Il colore della nostra pelle è in parte geneticamente determinato (pigmentazione costitutiva) e in parte facoltativo.
Se il primo è dovuto alle caratteristiche intriseche del soggetto e che caratterizza i diversi fototipi, il secondo è indotto dai raggi UV e caratterizza la nostra abbronzatura durante e dopo l’esposizione al sole.
L’esposizione ai raggi UV induce inizialmente una pigmentazione immediata che si verifica dopo pochi minuti dall’esposizione ai raggi UV-A e poi una ritardata.
La pigmentazione indotta immediata è maggiore nei soggetti di pelle scura ed è dovuta all’ossidazione delle melanine pre-formate o dei precursori cutanei delle melanine che rilasciate subito dopo pochi minuti di esposizione al sole inducono una prima abbronzatura.
La pigmentazione indotta e ritardata invece è una vera e propria melanogenesi che si verifica già dopo 48-72 ore dall’esposizione ed è dovuta sia ai raggi UV-B sia agli UV-A.
L’abbronzatura delle pelle non è altro però che uno dei meccanismi che la nostra cute adotta per evitare i danni dovuti all’esposizione al sole.
In pratica, in seguito all’esposizione al sole il rilascio della melanina pre-formata (pigmentazione immediata) e di quella neo-sintetizzata (pigmentazione ritardata) a livello degli strati superficiali cutanei favorisce la formazione di uno “scudo” più o meno scuro di pigmento che si oppone alla penetrazione dei raggi UV, sia UV-A e UV-B in grado di causare danni diretti e indiretti a livello del DNA delle cellule dello strato basale dell’epidermide, in primis, ma anche del derma.
L’abbronzatura è solo uno dei meccanismi di difesa che la nostra pelle che è in grado anche di:
aumentare lo spessore dello strato corneo
aumentare la sintesi e attivazione dei sistemi anti-ossidanti per eliminare e neutralizzare i radicali liberi dell’ossigeno
produrre acido urocanico che ha un effetto foto-protettore oltre che immuno-soppressiva
Esiste un’associazione tra rischio di rosacea e assunzione di caffeina, compreso il consumo di caffè?
Questa domanda affligge da sempre chi soffre di rosacea, ma ad oggi possiamo finalmente affermare che anche chi è affetto da rosacea potrà gustare senza sensi di colpa la tanto amata tazzina di caffè.
In questa coorte di 82.737 partecipanti a Nurses’ Health Study II con le analisi svolte tra giugno 2017 e giugno 2018, sono stati identificati 4945 casi di rosacea individuando una significativa associazione inversa tra rischio di rosacea e l’aumento dell’assunzione di caffeina, in particolare quella da caffè. Questa associazione non è stata trovata per l’assunzione di caffeina da altre fonti di cibo (tè, soda e cioccolato).
L’assunzione più elevata di caffeina è stata associata a un minor rischio di rosacea dopo aggiustamento per diversi fattori confondenti.
Complessivamente, i partecipanti che hanno bevuto 4 tazze di caffè al giorno avevano meno probabilità di sviluppare una rosacea rispetto ai partecipanti che non bevevano caffè.
È stata trovata un’associazione dose-risposta sia per aumentare l’assunzione di caffeina che di caffè. Gli autori hanno ipotizzato che gli effetti vasocostrittivi e immunosoppressivi della caffeina potrebbero ridurre il rischio di rosacea.
È noto che la caffeina diminuisce la vasodilatazione e ha effetti immunosoppressivi, che possono potenzialmente ridurre il rischio di rosacea.
Tuttavia, il calore del caffè può essere un fattore scatenante per la riacutizzazione della rosacea. La relazione tra il rischio di rosacea e l’assunzione di caffeina, compreso il consumo di caffè, è poco conosciuta.
L’ aumentato consumo di caffeina da caffè è stato inversamente associato al rischio di rosacea incidente. Lo studio non supporta la limitazione dell’assunzione di caffeina come mezzo per prevenire la rosacea. Sono necessari ulteriori studi per spiegare i meccanismi di azione di queste associazioni, per replicare le nostre scoperte in altre popolazioni e per esplorare la relazione della caffeina con diversi sottotipi di rosacea.
Un neo può sanguinare dopo uno sfregamento o un urto accidentale che ne causa la rottura. Anche se questo può provocare dolore di solito non c’è nulla di cui preoccuparsi. In rari casi può succedere che un nevo sanguini spontaneamente, in questo caso bisognerebbe farsi vedere quanto prima da uno specialista.
Gli adulti generalmente hanno fra i 10 e i 40 nevi, di solito le persone con la pelle più chiara tendono ad averne di più rispetto a chi ha un fototipo di pelle più scura.
I nevi cambiano anche con l’ età, alcuni diventano più scuri, altri più chiari, altri ancora diventano più grandi. Possono apparire ovunque, dal cuoio capelluto alla pianta dei piedi, persino sotto le unghie.
La maggior parte dei nevi sono innocui, ma bisogna comunque fare regolarmente degli screening e tenerli sotto controllo per notare se ci sono cambiamenti.
In questo articolo vediamo perché alcuni nevi possono sanguinare e quando è il caso di interpellare uno specialista.
Quali sono le Cause?
I nevi sollevati possono staccarsi leggermente a causa di uno sfregamento e sanguinare, questo può comportare prurito e molte persone tendono a grattarsi talmente forte da staccare ulteriormente il nevo.
Un nevo che sanguina può dare fastidio o dolore, ma solitamente sono piccole ferite che si possono tranquillamente risolvere in casa.
Se un nevo sanguina spontaneamente, bisognerebbe farsi vedere da uno specialista perchè a volte queste lesioni possono essere segnali di una manifestazione più importante.
Quando farsi vedere da uno specialista
Il melanoma è un tumore che deriva dalla trasformazione di alcune cellule che formano la pelle, i melanociti. Le cellule cancerose possono assomigliare ai nevi o svilupparsi da essi, quando vengono individuati e trattati precocemente, i melanomi sono quasi sempre curabili.
Si può seguire la regola dell’ “ABCDE” per monitorare nuovi nevi o già esistenti. Se è presente uno dei seguenti segni, consultare un medico per una valutazione professionale:
– Asimmetria: le due metà del nevo non corrispondono.
– Bordo: il nevo ha un bordo irregolare, smerlato o mal definito.
– Colore: il nevo presenta varie sfumature di marrone chiaro, marrone, nero, bianco, rosso o blu.
– Diametro: i melanomi sono solitamente più grandi di 6 millimetri di diametro, tuttavia possono essere anche più piccoli.
– Evoluzione: se un nevo appare diverso dagli altri, o, se ha cambiato notevolmente dimensioni, forma o colore, potrebbe indicare una manifestazione.
Altri sintomi sono:
– piaghe che non guariscono
– arrossamento o gonfiore che si diffonde al di fuori dei margini del nevo
– prurito o dolore
– cambiamenti nella struttura del nevo
– visione sfocata, perdita parziale della vista o punti scuri nell’iride dell’occhio
Quali sono i trattamenti
La prima cosa da fare quando un nevo sanguina è coprire la ferita con una medicazione sterile facendo un pò di pressione per fermare l’ emorragia.
La maggior parte dei nevi sono innocui e non richiedono ulteriori trattamenti, ma un medico può anche decidere di rimuovere un nevo sospetto per analizzarne le cellule.
Alcune persone desiderano anche rimuovere i nevi perchè possono essere fastidiosi o perchè solitamente sorgono in punti scomodi, come all’ altezza della cintura dei pantaloni o del reggiseno. Il dermatologo può rimuovere il nevo con l’ asportazione chirurgica o con il laser (shaving).
Durante l’ intervento chirurgico, il medico anestetizza la zona da trattare, asporta la lesione e chiude la ferita con dei punti di sutura.
Con lo shaving solitamente si asportano i nevi rialzati, sempre dopo aver anestetizzato la zona il medico usa un piccolo bisturi o il laser per rimuovere la lesione sollevata sopra la cute.
Alcune persone cercano di rimuovere i nevi con metodi casalinghi ma l’American Association of Dermatologis mette in guardia da queste manovre per tre motivi:
– Se il nevo ha una displasia alcune delle cellule tumorali possono rimanere nella pelle e anche diffondersi.
– Tagliare o staccare un nevo può deformare la pelle e causare cicatrici.
– La rimozione di un nevo senza strumenti sterili e in condizioni non chirurgiche può portare delle infezioni.
Prevenzione
L’esposizione ai dannosi raggi ultravioletti (UV) del sole provoca la maggior parte dei tumori della pelle. I seguenti sono consigli generali di prevenzione:
– Restare all’ombra durante le ore più calde della giornata.
– Evitare l’ esposizione prolungata al sole e non utilizzare mai lettini abbronzanti UV.
– Usare cappelli a tesa larga e occhiali da sole anti-UV.
– Utilizzare una protezione solare ad ampio spettro (UVA / UVB) con SPF 50+
– Utilizzare una crema solare resistente all’acqua e ad ampio spettro (UVA / UVB) con SPF 50 durante lunghi periodi di esposizione al sole.
– Riapplicare la protezione solare ogni 2 ore e subito dopo aver nuotato o sudato eccessivamente.
– Tenere i neonati all’ ombra.
Per concludere
La maggior parte dei nevi sanguinanti a causa di urti accidentali possono essere trattati in casa applicando una benda medicata e facendo pressione, per sicurezza farsi anche vedere da uno specialista. Se un nevo sanguina senza motivo apparente contattare un medico dermatologo per una valutazione.
Il tasso di sopravvivenza di un melanoma allo stadio iniziale, che non si è diffuso, è del 99%.
La prevenzione è l’ arma più efficace.
È essenziale monitorare costantemente i nevi se si notano dei cambiamenti e parlarne con un dermatologo.
Riferimenti scientifici
Melanoma. (n.d.). Retrieved from https://www.skincancer.org/skin-cancer-information/melanoma
Melanoma: Statistics. (2016, July). Retrieved from https://www.cancer.net/cancer-types/melanoma/statistics
Melanoma symptoms. (2017, August 14). Retrieved from https://www.cancercenter.com/melanoma/symptoms/
Melanoma: Symptoms and signs. (2017, June). Retrieved from https://www.cancer.net/cancer-types/melanoma/symptoms-and-signs
Moles: Diagnosis and treatment. (n.d.). Retrieved from https://www.aad.org/public/diseases/bumps-and-growths/moles#treatment
Moles: Overview. (n.d.). Retrieved from https://www.aad.org/public/diseases/bumps-and-growths/moles
Signs and symptoms of melanoma skin cancer. (2016, May 20). Retrieved from https://www.cancer.org/cancer/melanoma-skin-cancer/detection-diagnosis-staging/signs-and-symptoms.html
Dalla loro caratterizzazione originale di Clark e colleghi nel 1978[1] i nevi displastici sono sempre al centro del dilemma se considerarli come nei pericolosi data la loro posizione nell’area grigia tra nevi melanocitari benigni e melanoma maligno. Anche la loro tipizzazione istologica è oggetto di dibattito, con alcuni patologi che preferiscono evitare il sistema di classificazione comune di atipia lieve, moderata o grave. [2]
I nevi displastici sono tumori melanocitari benigni contenenti popolazioni clonali di melanociti iperproliferativi. A rigor di termini, il nevo displastico è una diagnosi istologica, caratterizzata da disordine architettonico e atipia citologica. “Nevo atipico” è il correlato clinico, caratterizzato dai classici criteri ABCD di asimmetria, irregolarità del bordo, colore non uniforme e dimensione > 6 mm.
I nevi displastici sono comuni nelle persone di discendenza dell’Europa settentrionale, con stime di prevalenza che vanno dal 7% al 24%. [3] Anche se i nevi displastici possono progredire nel melanoma cutaneo, la maggior parte non ha le caratteristiche genetiche delle mutazioni del melanoma cutaneo, come CDKN2A, TP53, NF1, RAC1 e PTEN .[4]
La trasformazione maligna del nevo displastico nel melanoma cutaneo è rara, con uno studio che stima un tasso di trasformazione displasia nevoso-melanoma di 1 su 30.089 nevi negli uomini e 1 su 39.809 nevi nelle donne. [5] Nonostante ciò, i pazienti con nevi displastici multipli e/o una storia familiare di sindrome del nevo displasico presentano un rischio maggiore di sviluppare melanoma cutaneo, con stime relative del rischio che variano da 1,6 per individui con un nevo displastico a 10,5 per quelli con cinque o più. [6]
Data l’elevata prevalenza di nevi displastici e atipici, la maggior parte dei dermatologi sceglie di monitorare i pazienti con più nevi atipici, sottoponendo a biopsia solo quelle lesioni con segni clinici e dermatoscopici di grave atipia. Indipendentemente dalla tecnica (barba, saucerizzazione, pugno, escissione), molti dei nevi displastici mostrano margini istologici positivi, anche nei casi senza pigmentazione clinica residua.
Tutte queste lesioni dovrebbero essere riasportate per garantire l’assenza di recidive? E qual è il rischio di optare per seguire invece la ripigmentazione?
Sviluppo del melanoma cutaneo dai Nevi displastici asportati
Per affrontare questa preoccupazione pratica, Kim e colleghi [7] hanno condotto uno studio multicentrico retrospettivo di 467 nevi moderatamente displastici con margini istologici positivi, raccolti da 438 pazienti (193 donne e 245 uomini, età media, 46,7 anni). I pazienti sono stati seguiti per una media di 6,9 anni (range, 3,0-21,3 anni) per lo sviluppo del melanoma cutaneo in un sito di biopsia o altrove sul corpo. Questo studio non ha valutato nevi o nevi displastici gravemente parzialmente biopizzati.
Tra la coorte di studio, il 33,2% aveva una storia personale di melanoma, il 50,4% aveva almeno un nevo displastico sottoposto a biopsia e il 23,8% aveva una storia familiare di melanoma. I principali metodi di biopsia erano la saucerizzazione o l’escissione della rasatura (46,4%), l’escissione del punzone (45,3%) o l’escissione ellittica (7,7%). I risultati principali dello studio includevano:
Il 52,7% dei nevi displastici è stato interpretato come da lieve a moderato e il 47,3% è stato interpretato come moderato
L’esame istologico è risultato positivo ai margini periferici (89,9%), profondi (3,6%) e entrambi (6,5%)
Dopo un follow-up medio di 6 anni, nessun melanoma si è sviluppato in precedenti siti di biopsia
100 pazienti (22,8%) hanno sviluppato un melanoma primitivo successivo in un sito cutaneo distante, e tre di questi pazienti hanno sviluppato un melanoma metastatico
I fattori di rischio del melanoma includevano una storia di melanoma (odds ratio [OR], 11.74) e due o più nevi displastici confermati dalla biopsia (OR, 2.55)
Per concludere
Questo studio di nevi moderatamente displastici con margini istologici positivi è coerente con studi precedenti [8][9] e sostiene la pratica di monitoraggio di tali siti biopsia senza riescissione. Durante un follow-up medio di 6 anni, non sono stati osservati melanomi cutanei.
Hanno anche confermato i nevi displastici come un fattore di rischio indipendente per il melanoma cutaneo, che è stato ben documentato altrove. Queste osservazioni erano specifiche per una popolazione di studio quasi esclusivamente bianca.
Una considerazione clinica che non è stata presa in considerazione è cosa fare quando la ripigmentazione si verifica all’interno o vicino alla cicatrice di un nevo displastico sottoposto a biopsia. La pigmentazione ricorrente dovrebbe essere riasportata? Fa alcuna differenza se la ripigmentazione avviene all’interno della cicatrice bioptica o si estende oltre i suoi confini clinici? Quale percentuale di queste lesioni pigmentate ricorrenti sono nevi displastici con displasia uguale o superiore?
Infine, la maggior parte dei nevi displastici sottoposti a biopsia (69,5%) in questa coorte retrospettiva erano troncali, sollevando la remota possibilità che i nevi displatici rimossi da altri siti cutanei (ad es. Acrale, facciale, genitale) con margini positivi possano rappresentare un rischio futuro di melanoma maligno(comunemente definito come neo maligno).
Il termine Fototipo viene comunemente utilizzato per identificare il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di una persona e la sua sensibilità in seguito all’esposizione al sole.
Ognuno di noi in base alle caratteristiche delle propria miscela di melanine prodotte appartiene ad un Fototipo specifico. Ne esistono 6 tipi.
I diversi Fototipi spaziano dai soggetti di carnagione scura a quelli con la pelle chiara.
Oltre alla definizione di Fototipo esiste anche quella di Fenotipo che invece si riferisce solo al colore della nostra pelle dei capelli e degli occhi.
Sono due concetti dermatologici differenti e non esiste una correlazione diretta e lineare tra il Fototipo e il Fenotipo.
Se verrebbe facile pensare che i soggetti di carnagione scura non si scottano e si abbronzano facilmente e che per i soggetti di pelle chiara e con capelli biondi o rossi vale il contrario, ci sono dei casi limite.
Consideriamo ad esempio un soggetto con i capelli scuri, neri o marroni chiari. Questa persona in seguito all’esposizione al sole potrebbe abbronzarsi oppure scottarsi.
Pertanto, un soggetto Fenotipo III come quelli appena descritto potrebbe essere un Fototipo II se si scotta con l’esposizione al sole oppure Fototipo III se si abbronza e non si scotta.
Il termine Fototipo si riferisce esclusivamente alla sensibilità individuale alla luce solare e indirettamente potremmo scrivere alla sua capacità di abbronzarsi o di scottarsi.
La carnagione è molto chiara con presenza di lentiggini, occhi azzurri, capelli rossi. La sensibilità al sole e elevatissima e la persona si scotta sempre e non si abbronza mai. Si consiglia di applicare sempre una protezione solare con un alto fattore di protezione.
Fototipo 2
La pelle è chiara con occhi azzurri o verdi e capelli biondi. Elevata sensibilità in seguito all’esposizione al sole che molto spesso causano scottature. Si abbronza poco sviluppando una tonalità dorata.
Fototipo 3
La pelle è rosea, gli occhi marroni e i capelli castani. Quando si espone al sole ha una sensibilità media. Si abbronza sviluppando una tonalità dorata e spesso si scotta.
La pelle è olivastra, gli occhi scuri e i capelli bruni. La sua sensibilità al sole è bassa e si abbronza in maniera intensa e poco frequenti le scottature.
Fototipo 5
La pelle è olivastra, gli occhi scuri e i capelli neri. Minima sensibilità al sole. Si abbronza in maniera facile e rapida. Quasi assenti le scottature.
Fototipo 6
La pelle è scura, gli occhi scuri e i capelli neri. Veramente minima, quasi nulla, la sua sensibilità al sole. Non si scotta mai ed ha un’abbronzatura particolarmente intensa sempre durante tutto l’anno.
La pelle è un vero e proprio ecosistema che ospita microbi come virus, batteri e funghi. Il termine che rappresenta meglio questo concetto è “Microbiota cutaneo”.
Questi microbi possono essere residenti commensali che provvedono alla produzione di antibiotici naturali e quindi alle difese dell’organismo o non residenti transitori che in condizioni favorevoli possono causare malattia.
Il Microbiota è quindi strettamente legato al benessere dell’individuo e all’insorgenza di malattie.
Nascono la Dermobiotica, scienza che studia le interazioni tra cibo, intestino e microbiota cutaneo e la Psicobiotica, disciplina che studia gli effetti delle modificazioni del microbiota intestinale sulla mente e sul tono dell’umore.
La connessione intestino-cute è stata riportata in numerose dermatosi come Acne, Dermatite Atopica, Psoriasi e Ittiosi.
I microbi intestinali (microbiota intestinale), ovvero la flora batterica residente sarebbero in grado di modulare la funzione immunitaria cutanea e potrebbero svolgere un ruolo critico nello sviluppo (aumentando l’infiammazione) e prevenzione (riducendo l’infiammazione) dei tumori.
Come si forma il Microbiota cutaneo?
Il microbiota cutaneo si inizia a formare al momento della nascita quando il feto passa dall’ambiente sterile uterino a quello esterno, passando dal canale vaginale e contaminandosi con i microbi vaginali o fecali materni.
I microbi che sono stati identificati sonosoprattutto, Actinobatteri (51,8%), Firmicuti (24,4%), Proteobatteri (16,5%) e Bacteroidi (6,3%), per un totale di 205 generi diversi, di cui Corinebatteri, Propionobatteri e Stafilococchi .
Quali sono i fattori che modificano il Microbiota cutaneo?
I fattori che possono modificare il microbiota umano e quello cutaneo sono le condizioni igieniche, i lavaggi e la detersione, l’esposizione ad antibiotici e cambiamenti nello stile di vita e, di conseguenza, tutti questi elementi possono essere causa di alcune malattie.Nel caso dei batteri intestinali inoltre è importante anche l’alimentazione.
Una dieta bilanciata ricca di frutta e vegetali, fibre, polifenoli è sempre più considerata utile nella prevenzione del cancro per la sua azione antiinfiammatoria.
Frutta e verdura per il Microbiota cutaneo
Ogni giorno, abbiamo la possibilità di modificare il nostro microbioma
Bisognerebbe ripristinare i microrganismi intestinali buoni e ciò è possibile con un’alimentazione basata su alimenti ricchi di fibre vegetali solubili, evitando per quanto possibile, carne e latticini.
Sia la Psoriasi sia la Dermatite Seborroica sono due patologie molto comuni e con aspetti simili quando si manifesta al cuoio capelluto.
A volte sono talmente simili che è facile confonderle senza considerare che a volte esistono anche delle sovrapposizioni.
Ci sono persona infatti che possono manifestare al cuoio capelluto sia la Psoriasi sia la Dermatite Seborroica, condizione nota con il nome di Sebopsoriasi.
La Sebopsoriasi, che alcuni chiamano anche Seborriasi, si manifesta solo al cuoio capelluto e presenta manifestazioni cliniche alcune riconducibili alla Psoriasi del cuoio capelluto e altre alla Dermatite Seborroica.
Il sospetto di Sebopsoriasi nasce nel momento in cui le manifestazioni invadono tutto il cuoio capelluto, le pieghe dell’orecchio esterno, i solchi retroauricolari e si estendono oltre il limite dell’attaccatura dei capelli.
Di solito la Sebopsoriasi risponde bene a tutti i trattamenti normalmente utilizzati per la cura della Dermatite Seborroica
Se la Sebopsoriasi è una condizione overlap tra due differenti patologie, la situazione più comune è che una persona abbia solo la Psoriasi oppure la Dermatite Seborroica.
Distinguere una dall’altra non è sempre facile e capita spesso che una persona si senta dire che soffre di Dermatite Seborroica una prima volta e poi di Psoriasi quella successiva.
E’ evidente che, trattandosi di due patologie a se stanti, una corretta diagnosi è fondamentale per un approcccio terapeutico mirato che da un lato deve risolvere la malattia e dall’alto gestire l’impatto estetico caratterizzato dalla presenza di “forfora” sui vestiti all’altezza delle spalle e delle croste a livello del cuoio capelluto.
Sia la Psoriasi sia la Dermatite Seborroica quando si localizzano al cuoio capelluto non causano mai la caduta dei capelli.
I capelli però possono essere strappati, creando delle aree di Alopecia, solo quando si riumove energicamente la squamo-crosta in quanto vi rimangono intrappolati al suo interno.
Vediamo di seguito in maniera schematica quali sono le differenze tra la Psoriasi e la Dermatite Seborroica quando si localizza al cuoio capelluto.
Quali sono al cuoio capelluto le differenze tra la Psoriasi e la Dermatite Seborroica?
PSORIASI
DERMATITE SEBORROICA
Come si manifesta?
Macchie o placche arrossate e ben definite e demarcate ricoperte da squame e/o croste biancastre o argentee molto aderenti.
Macchia o placche arrossate non ben definite ricoperte da squame giallastre e untuose
Dove di manifesta oltre al cuoio capelluto?
Gomiti, ginocchia, unghie e in altre parti del corpo
Sopracciglio, palpebre, pieghe nasolabiali, orecchie, sterno e dorso
Quali sono i sintomi?
Prurito moderato/intenso
Prurito lieve
Quali i fattori che causano un peggioramento?
Traumi fisici, stress fisici o emozionali, febbre, farmaci quali ad esempio i Beta-bloccanti e il Litio
Scarsa igiene
Quali sono le possibili associazioni?
Artrite, distrofie ungueali
Parkinson, AIDS
Esiste predisposizione familiare?
Si, altri in famiglia possono avere la Psoriasi
No, manca la predisposizione familiare. Il 5% degli adulti può avere la Dermatite Seborroica e il 33% dei soggetti con AIDS
Quali sono le differenze istologiche?
Ipercheratosi, Acantosi, presenza di neutrofili nell’epidermide, proliferazione di capillari nel derma, infiammazione perivascolare
Mancano segni istologici tipici in quanto simili a quelli di una dermatite non specifica
Quali sono gli esami da fare?
Nessuno
Nessuno tranne HIV nei casi in cui è presente una Dermatite Seborroica importate, diffusa e resistente alle cure
Qual è il decorso?
Cronico e recidivante
Cronico e recidivante
La Psoriasi del cuoio capelluto
Se normalmente la Psoriasi quando si localizza sul corpo regredisce con l’esposizione al sole quella del cuoio capelluto non regredisce.
Siccome il prurito può essere particolarmente intenso, spesso oltre alle presenza della manifestazioni tipiche della malattia sono presenti segni di grattamento che può essere volontario o inconscio.
Psoriasi localizzata al cuoio capelluto
La Psoriasi quando si localizza al cuoio capelluto, oltre alle manifestazioni riportate in tabella può presentare segni di Lichenificazione, ovvero di ispessimento della pelle del cuoio capelluto, conseguente al grattamento cronico. Inoltre possono essere presenti fissurazioni ed essudazioni soprattutto dietro le orecchie.
Le placche della Psoriasi del cuoio capelluto possono essere isolate oppure confluenti tra loro fino a formare quello che viene comunemente chiamato “casco” di Psoriasi.
Da un punto di vista teorico se presente una Psoriasi lieve, caratterizzata dalla presenza di desquamazione superficiale senza placche spesse, è possibile usare Shampoo con attivi a base di catrame vegetale o derivati magari associati a lozioni o gel con azione cheratolitiche da applicare e massaggiare diversi minuti prima di lavare i capelli.
Se la Psoriasi, invece, è molto più importante e complessa con la presenza di placche eritemato-squamose spesse e infiltrate è necessario un trattamento dermatologico più incisivo che da un lato punti alla rimozione delle croste e poi al trattamento della lesione sottostante.
A tal proposito esistono vari rimedi a base di derivati della vitamina D che possono contenere anche acido salicilico oppure essere associati a cortisonici che devono essere applicati diversi minuti prima dello shampoo.
La Dermatite Seborroica del cuoio capelluto
Anche la Dermatite Seborroica del cuoio capelluto, oltre alle manifestazioni riportate in tabella, può essere caratterizzata dalla presenza di fissurazioni con lesioni che possono essere, anche in questo caso, isolate tra di loro, oppure confluenti interessando tutto il capillizio.
Dermatite Seborroica localizzata sul cuoio capelluto
Se la Psoriasi è la patologia con la quale entra più frequentemente in diagnosi differenziale ci sono altre patologie da non dimenticare e tenere sempre presenti quali:
Impetigine
Micosi (Dermatofitosi o Tinea del cuoio capelluto)
Lupud Eritematoso Subacuto
Pemfigo foliaceo
Conclusioni
Se anche per il Dermatologo ci possono essere delle criticità per distinguere la Psoriasi e la Dermatite Seborroica del cuoio capelluto, il consiglio per quanto possa sembrare scontato è di evitare l’auto-diagnosi e il fai da te.
Sono entrambe due patologie croniche che durano nel tempo e recidivanti in quanto alternano fasi di remissione ad altri con la ricomparsa dei segni e sintomi tipici.
Siccome sono due patologie a se stanti, lo sono anche le terapie e proprio per questo solo se correttamente diagnosticate è possibile immaginare di poter eseguire una cura efficace e valida che gestisca la fase acuta per poi allungare il più possibile l’intervallo libero di malattia.
Chiede sempre il consulto al Dermatologo se avete notato la presenza di rossore e croste al cuoio capelluto.
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